martedì , 15 Ottobre 2024

Così muoiono le aree interne: il report di Openpolis sul rapporto tra carenza di servizi e spopolamento

Una montagna sempre più deserta: è questo il rischio che emerge dai dati Istat sullo spopolamento delle aree interne, raccolti in uno studio di Openpolis insieme all’impresa sociale Con i Bambini, che va ad analizzare cause e motivi alla base del fenomeno e a tracciare un quadro possibile (e fosco) per i prossimi anni. L’analisi mostra infatti come a essere colpiti da una maggiore tendenza allo spopolamento saranno soprattutto i comuni periferici, i territori montani e le aree interne del nostro Paese, cioè quelle zone in cui è venuta progressivamente meno la maggior parte dei servizi essenziali, tra sanità, istruzione e mobilità.

Aree interne: di che cosa stiamo parlando?

Quando si parla di “aree interne”, si indicano i territori più distanti dalle città, siti spesso in contesti montani o isolati e nei quali l’organizzazione di una rete di infrastrutture e servizi risulta più difficoltosa. Riprendendo le parole dell’antropologa Anna Rizzo, autrice del libro “I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia“, «le aree interne sono quei territori rimasti indietro, places left behind, che non assolvono all’adempimento di servizi necessari per vivere in maniera sicura e dignitosa. In cui l’approvvigionamento di beni e di servizi è carente, per mancanza di infrastrutture che progressivamente sono state smantellate o non sono mai state realizzate».

Sono anche le aree che hanno subito un maggiore spopolamento, in quanto risultano meno vivibili per i nuclei familiari, in particolare per quelli con figli. Insomma, un gatto che si morde la coda: la carenza di servizi porta le famiglie ad avvicinarsi ai centri invece che a restare sul territorio, e questa “emorragia” accentua e accresce lo spopolamento e l’ulteriore riduzione dei servizi.

I dati dello spopolamento

Secondo la ricerca Openpolis, la tendenza allo spopolamento è andata acuendosi progressivamente e ha caratterizzato i comuni più periferici a partire dal secondo dopoguerra. Dal 1951 a oggi, infatti, è stata riscontrata una crescita di popolazione pari al +30,6% nei comuni-baricentro di servizi essenziali (quindi le aree urbane), mentre nei “comuni-cintura” attorno alle principali città l’aumento è stato del +48,9%.

Il vero e proprio crollo demografico è avvenuto invece nei comuni periferici (cioè quei comuni dove servono tra i 40 e i 67 minuti per raggiungere il polo più vicino) e ultraperiferici (cioè quelli in cui servono più di 67 minuti), che hanno vissuto un calo rispettivamente del -17,7% e del -26,4% dal 1951 a oggi e del -3,8% e del -4,5% dal 2011 a oggi. Il tutto, in un’Italia che ha mantenuto pressoché inalterato il numero complessivo dei suoi abitanti, cioè 59 milioni e mezzo.

Una questione (anche) di bambini

Insomma, il numero degli italiani è sempre lo stesso, ma la gente si sposta laddove trova più servizi. Questo vale a maggior ragione quando i nuclei familiari comprendono anche dei bambini: le province con più minori residenti in aree interne sono anche quelle destinate a spopolarsi maggiormente da qui al 2030.

Sempre secondo le analisi dei dati Istat da parte di Openpolis e le proiezioni sul prossimo futuro, infatti, l’8,6% dei bambini italiani di età inferiore ai 2 anni vive in comuni che distano più di 40 minuti dai principali poli di servizi, ma la percentuale è anche più alta in 46 province su 107, dove il numero dei minori andrà calando da qui al 2030 a ritmi più sostenuti che nel resto del Paese. Tanto per fare alcuni esempi numerici, se nel prossimo decennio la riduzione della fascia demografica 0-4 anni è prevista del -8,32% su scala nazionale, in province come quella di Nuoro (la prima in Italia per quota bambini 0-2 anni in comuni periferici e ultraperiferici, pari all’85% del totale nel 2020) il calo è stimato pari al -19,1% rispetto a oggi. Caso analogo alle province di Isernia ed Enna, per cui le proiezioni parlato di -16,7% e -11% nel numero di minori 0-4 anni da qui al prossimo decennio.

Una discriminante importante all’interno di questo fenomeno è costituita dalla disponibilità o meno di servizi educativi dedicati all’infanzia. Laddove mancano strutture dedicate a questa fascia d’età, il calo previsto è maggiore che in altre aree più strutturate. Niente di nuovo sotto il sole, anche se i numeri aggiungono chiarezza a una tendenza che chi abita le aree interne sperimenta e racconta già da un po’: la domanda, semmai, è cosa si possa fare per invertire la tendenza. O meglio, come mai ancora non si è fatto nulla. Perché questa emorragia dei territori marginali non è vissuta come priorità? Perché non si riesce a comprendere che un territorio presidiato – e non solo fruito per turismo o vacanza – significa protezione, cura, sicurezza e giustizia per tutti?

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