martedì , 15 Ottobre 2024

Places left behind: come abitare oggi le aree interne? Intervista ad Anna Rizzo

Parlare di montagna – e di aree interne in generale – non può prescindere da una riflessione più ampia, strutturata, che esuli dai facili sentimentalismi e sia capace invece di interrogarsi sul ruolo del territorio marginale per il presente, e viceversa. Cosa comporta, oggi, occuparsi di aree interne? Quale il loro valore, quali le criticità da affrontare nel dibattito pubblico? A inaugurare la sezione “Interviste” (che raccoglierà pareri e riflessioni di chi a vario titolo lavora e opera nelle aree interne italiane) è Anna Rizzo, archeo-antropologa: responsabile della sezione antropologica “Fluturnum, Archeologia e Antropologia nell’Altra Valle del Sagittario”, in Abruzzo, e antropologa della missione antropologica del progetto “Mea Memoria” di Civita (CS), Anna studia, vivendoci, le culture arcaiche e rurali in aree a forte spopolamento.

Anna, iniziamo parlando di aree interne. Cosa si intende, oggi, con questo termine?

Le aree interne sono quei territori rimasti indietro, places left behind, che non assolvono all’adempimento di servizi necessari per vivere in maniera sicura e dignitosa. In cui l’approvvigionamento di beni e di servizi è carente, per mancanza di infrastrutture che progressivamente sono state smantellate o non sono mai state realizzate.

Che dimensione geografica e sociale designa, o dovrebbe designare, la definizione “aree interne”?

È molto trasversale, perché le aree interne in realtà sono zone anche costiere, di confine o isole minori.

Quali sono, secondo la tua esperienza e la tua visione, le potenzialità e quali le criticità delle aree interne italiane, in particolare quelle collocate in montagna?

Il dato orografico incide maggiormente sia per la mobilità, sia per gli eventuali progetti di implementazione delle reti legate alla ricezione del segnale telefonico e per la digitalizzazione dei territori dove è quasi inesistente. Le asperità del paesaggio sono un limite per lo sfruttamento economico della media ed alta montagna. E solo dove si sono realizzate opere in sinergia con gli spazi, sfruttando a proprio vantaggio le risorse, si è creato un insediamento più o meno stabile.

Ma non si può parlare di aree interne in maniera generalista. Non esiste un contesto uguale all’altro. E paradossalmente aree che non pensiamo come aree interne in realtà lo sono. Come per esempio l’isola di Stromboli.

Aree interne e montane” significa anche “aree fragili”, sia sotto il profilo ambientale e geografico, sia sotto quello sociale. Si può invertire questa tendenza? Se sì, come? E ancora, in che misura secondo te è necessario farlo?

Spingere verso un’idea di territorio efficiente a tutti costi non ha senso. Bisogna intercettare i bisogni delle persone e dei bambini. Sono loro che indirizzano le scelte e le volontà. Chiaramente non vengono interrogati, per un concentrato di presunzione e mancanza di umiltà. Molti territori si spopoleranno e verranno dimenticati, rinaturalizzati. E forse questa è l’unica vera occasione che abbiamo per non distruggerli. Ci saranno generazioni più consapevoli della nostra, forse, che sapranno averne cura, e avere la capacità di osservare e valorizzare un patrimonio materiale che cui noi non siamo in grado di tutelare e custodire.

Oggi si parla molto del cosiddetto “ritorno ai paesi”. Tu come la vedi? È una spinta realmente presente, oppure è retorica? Potrebbe essere una direzione fattibile, anche in relazione ai mutamenti climatici e alle problematiche sanitarie, o al contrario rischia di essere qualcosa di utopico?

Vivere in un paese è faticoso, mancano i diritti, manca la possibilità di riscatto e la libertà di poter vivere nell’anonimato. Nei paesi c’è un controllo sociale molto forte, che pilota le vite, anche in maniera inconscia. Si è sempre una parte per il tutto. Non si è visti nella propria individualità e unicità, e ogni gesto – giusto o sbagliato che sia – è un marchio indelebile che ti porti per tutta la vita. Sono contesti paludati e segnati da conflitti. La maggior parte delle famiglie, nonostante siano in pochi, non si parla.

I paesi sono luoghi da cui chi se ne è andato lo ha fatto non perché “non c’erano bei paesaggi o il cibo buono”, ma perché non si sarebbe realizzato, non avrebbe avuto una vita dignitosa. O avrebbe dovuto fare scelte tradizionali senza possibilità di opporsi.

Chi si oppone ne paga un costo sociale e psicologico. Certe situazioni sono più o meno accentuate da regione e regione. Bisogna che nei paesi arrivino i diritti e che questi vengano considerati. Andare a vivere nei paesi perché tutto costa poco probabilmente vuol dire che la filiera di riferimento agricola o economica non ha messo in regola i suoi dipendenti. Non ci sono tutele. Passi da una zona grigia informale in cui tutto ti sembra regalato a una zona nera di sommerso e precariato. Nei paesi come nelle città bisogna lavorare sui diritti che tutelano il lavoro, la salute, la scuola, l’infanzia, le donne, chi si riconosce in altre sfumature del gender, i disabili, gli anziani o chiunque voglia realizzarsi e non può farlo nel luogo in cui è nato.

Quali potrebbero essere i pro e quali i contro di una scelta di ritorno a una dimensione di paese, ferma restando la specifica caratterizzazione di ciascun territorio?

In molti paesi non ci sono nemmeno le condizioni di benessere e di qualità della vita per chi ci vive. O si fa una scelta consapevole, in cui sai che mancherà molto e che non sarà il paese a dartelo, oppure si sa che bisognerà crearselo da soli, con capitali, strumenti, creatività e una buona rete sociale. Trasferirsi in montagna o in contesti molto isolati ha dei costi, anche maggiori rispetto alle città. Soprattutto d’inverno, quando le esigenze si moltiplicano per riscaldare la casa, spostarsi in sicurezza e avere la capacità di vivere un periodo di isolamento. Quindi è utile avere la possibilità di lavorare da casa o – come teorizzano alcuni – avere una seconda casa in città. Chiaramente è un’opportunità per i pochi che se lo possono permettere.

In questo contesto, ritieni che i progetti di reinsediamento promossi di tanto in tanto dai territori (es. “case a un euro”) siano utili o significativi?

È marketing a basso costo. Sono comunicati stampa o idee che non porterebbero un risultato di ripopolamento. Le “case a un euro” sono un gioco: i costi per rimetterle a posto sono ben diversi.

Progetti di reinsediamento e di ritorno – a parte Riace in Calabria, con il sindaco Mimmo Lucano – non ne conosco. Per molti anni la sua strategia è stata ostracizzata e non considerata. Invece è una di quelle percorribili, che parte da progetti che mettono al centro la persona, i diritti e l’umanità. Sono i progetti ispirati dal cuore quelli che mirano al benessere delle comunità.

Parliamo di rappresentazione e rappresentanza. La rappresentazione del “paesano” e della “vita di paese” rischia di essere spesso stereotipata, idealizzata o pregiudiziale. Come mutare questa rappresentazione, e come agire per una maggiore rappresentanza dei contesti rurali negli schemi decisionali regionali e nazionali?

L’idea di paesano invornito serve a chi vuole scegliere in sua vece sulle progettazioni future. Stanno nascendo una serie di figure capestro, al limite del democratico, come il community manager, l’animatore di comunità, professionisti che si pongono in maniera sostitutiva a figure già esistenti, cioè il sindaco, gli assessori, gli amministratori.

Non ne abbiamo bisogno, rischiano di far confondere gli abitanti. Bisogna semmai creare momenti per riportare l’attenzione sull’importanza di scegliere il proprio rappresentate istituzionale, che di fatto è l’unico referente. Il resto sono figure saprofite, destinate a concludersi con cicli politici e che non hanno a cuore la comunità se non la propria carriera o addirittura la propria performance.

Che ruolo hanno (o potrebbero avere) le comunità locali nella valorizzazione, rivitalizzazione e rinascita delle aree interne? E le amministrazioni locali?

Se si va ad osservare cosa accade nei paesi e nelle frazioni, ci si accorge che esiste un fermento creativo, umano, innovativo enorme. Il problema nasce quando accademici, innovatori o personaggi del sottobosco istituzionale in cerca di fama si appropriano delle pratiche storiche o locali messe in atto, come modalità relazionali, aggregative o di persistenza culturale e le fa proprie, obliterando un percorso storico.

Come si collocano le proposte di “turismo sostenibile” in questo quadro? Può il turismo essere traino per una riscoperta delle aree interne? In che modo, e a quali condizioni?

Non esiste il turismo sostenibile. I paesi, le frazioni, le isole minori spesso subiscono la presenza dei turisti perché non sono in grado di soddisfare lo smaltimento dei rifiuti e la pressione sanitaria (soprattutto in piena pandemia estiva), e vivono il rischio del collasso come eventualità possibile. Il turismo a fine pandemia si rispalmerà sul lungo raggio, con destinazioni esotiche e internazionali. Bisogna puntare su progetti che assolvono ai bisogni e necessità reali durante tutto l’anno, non accodarsi ad un trend, fare degli investimenti sulla scia dell’emozione e creare delle monocolture. In molti paesi o città sono nati centinaia di locali, ristoranti, bistrot, gourmet, bar destinati ai turisti. La pandemia ha messo in ginocchio il sistema turistico e ha cambiato le abitudini. Funzionano molto bene i luoghi dove l’intervento o l’ammodernamento è stato minimo.

Ultima domanda: cosa consiglierebbe a un/una giovane che pensasse di abbandonare la vita cittadina per provare a radicarsi in un contesto rurale?

Di provarci, ma di non lasciare la casa in città e di avere un piano B nel caso in cui ci ripensasse.

Radicarsi in un contesto rurale provenendo dalla città è un mito autopoietico. Che serve per darci una seconda possibilità illudendoci di lasciare tutto alle spalle.


Le fotografie utilizzate all’interno dell’articolo sono di Claudio Mammucari. Sono vietati la riproduzione, la copia, la stampa e il riutilizzo senza il consenso dell’autore.

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