martedì , 15 Ottobre 2024

Se questo forno potesse parlare

Il piccolo forno comunitario è posizionato all’ingresso del borgo di Verdeggia. È la prima cosa che si nota, anzi, la seconda, ché la prima è il bar-ristorante Il Ritrovo degli Amici: un nome un programma, perché questo locale accogliente non è solo l’unico punto di ristoro e aggregazione del paese, ma soprattutto un luogo dove chi entra è a casa.

Ma dicevamo, il forno comunitario: piccolo, dalla struttura in pietra e dal tetto in legno, con lo spazio per sedersi e fermarsi a chiacchierare, reca sul muro esterno il cartello di benvenuto, rigorosamente in lingua brigasca. E rappresenta, in un certo senso, il cuore del piccolo paese e un simbolo della comunità brigasca: ogni paese, ogni borgata e ogni frazione aveva il suo forno. E il pane, un tempo, si cuoceva assieme.

“Potesse parlare ‘sto forno…”

Quando arrivo a Verdeggia, mi sta già aspettando un bel comitato di accoglienza: la Pro Loco al completo. Avevo contattato via mail l’associazione qualche settimana prima, perché in un paese così piccolo se trovi l’aggancio giusto riesci a conoscere tutto il paese, e infatti il presidente Romano della Torre si è mobilitato per farmi incontrare tutte le memorie storiche verdeggiasche, uomini e donne di svariate generazioni che hanno continuato a vivere lassù, all’ombra del monte Saccarello. Ci sono Antonio, Alvise, Giuliano, Iolanda, Romano, Gianna, Davide, Gianfranco, Christian… Una folla, per un paese così piccolo. Ciascuno con la sua storia da raccontare ma – soprattutto – con una comune da ricordare.

«Ci sentiamo tutti radicati qui», spiegano. «Molti di noi hanno lavorato a valle… Ma sono tornati non appena hanno potuto. Siamo tornati, sì, perché ci mancava la nostra terra».

Le storie qui non sono mai del tutto individuali. Sono storie di comunità, di gruppo, ricordi condivisi ed esistenze vicine, simili, venate dalla medesima nostalgia. Il forno, mi spiegano, era centrale nella vita del paese: le persone non cuocevano il pane in casa, non avevano il forno personale, quindi portavano l’impasto al forno comune, che veniva acceso e usato insieme da tutti gli abitanti. «Di legna, ce n’era poca. Serviva per scaldarsi», mi spiegano. «Vedi qua attorno? Tu ora vedi boschi e alberi, giusto? Ma decenni fa queste erano tutte fasce coltivate, non c’era la foresta così vicina all’abitato. Coltivavamo il grano, l’orzo, le patate, quello che serviva per vivere. E non era una vita facile, eh! Per questo molti sono scappati. Per questo i paesi si sono spopolati e il bosco si è ripreso le terre». Poca legna, dunque, e quindi l’esigenza di accendere il forno per tutti e solo quando serviva: allora era momento di festa, di convivialità e di comunità. A Verdeggia, il forno è rimasto attivo fino agli anni ’70: oggi viene acceso solo in occasione di speciali eventi.

«Potesse parlare, ‘sto forno», commenta Iolanda con una risata. «Quante ne ha viste, quante ne ha sentite. E’ stato testimone di tutta la vita del nostro paese…». «Già, e poi ogni tanto la volta bruciava e bisognava ricostruirla», ricorda Antonio. «Bei tempi, quando si accendeva il forno».

Ricordi di pastori

E non è un caso, quindi, che le mie arzille guide verdeggiasche mi abbiano aspettata proprio davanti al forno del paese, da sempre catalizzatore di eventi, incontri, pettegolezzi e storie.

È qui che mi raccontano, ad esempio, di come funzionasse la vita dei pastori transumanti: l’inverno trascorso sulla costa, la salita oltre i 2000 metri con le greggi durante l’estate, la discesa in paese in autunno… «I pascoli erano concessioni comunali», mi spiega Antonio Lanteri, che ha indossato apposta per me l’abito tradizionale del pastore brigasco. «Ogni pastore aveva tra le cinquanta e le ottanta pecore di razza brigasca, più qualche capra, per l’uso di latte quotidiano… Il latte di pecora è troppo grasso, viene usato solo per i formaggi: ricotta, pecorino, bruss fermentato».

La routine della famiglia del pastore si ripeteva anno dopo anno. Donne e figli piccoli restavano nelle borgate a monte, dove si svolgevano le coltivazioni estive (ecco perché anche ciascuna borgata aveva il suo forno comune), mentre il pastore e i figli più grandicelli salivano in alpeggio con gli animali.

«La mungitura si faceva ogni mattina e ogni sera», racconta Gianna Lanteri. «Si portavano tutte le pecore in uno spiazzo. Ai bambini toccava il compito di “cucià”, cioè di spingere gli animali in fila verso la mungitura: c’era una porticina in cui entrava un animale alla volta, e ai lati i due pastori mungevano. Poi, avanti la prossima. Mi piaceva moltissimo stare lassù, sai? Solo una cosa temevo: i temporali…».

Forni brigaschi

Il forno comunitario è ricorrente in ciascuno dei borghi brigaschi e nelle varie borgate. Rappresenta in un certo senso un simbolo, il legame ancora tangibile con una tradizione che rischia di scomparire. Ed è per questo che negli ultimi anni c’è stato un piccolo movimento locale di valorizzazione di questa eredità rurale.

Giampiero De Zanet, ad esempio (che gestisce il Rifugio Realdo nel cuore dell’omonimo borgo), si è fatto capofila un paio di anni fa della realizzazione di un volume di racconti dedicati alla Terra Brigasca e intitolato proprio “Il forno di Realdo” , a cui hanno partecipato diciotto scrittori e scrittrici. Non solo: al momento sta lavorando anche alla costruzione di un itinerario di trekking che tocchi proprio tutti i forni delle borgate realdesi e verdeggiasche, in una sorta di sentiero della memoria e della tradizione.


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