giovedì , 25 Aprile 2024

Montagna di ieri e di oggi, tra storia e futuro. Intervista a Michela Capra

Non terra di frontiera ma di scambi. Non valli immobili ma dedite, oltre che all’agricoltura e all’allevamento, anche ai commerci e alla lavorazione dei metalli. Non zone autarchiche ma di grande circolazione di merci, persone e saperi. Soprattutto, non terre di latifondo ma di grande e radicata autonomia, abituate per secoli ad autogestirsi e a condividere come collettività determinati beni – boschi, pascoli, malghe, acque – funzionali alla sopravvivenza della comunità. La montagna lombarda raccontata da Michela Capra, etnografa di professione e amante delle terre alte di natura, è molto diversa da quella che spesso emerge dalla narrativa mainstream: «le montagne non sono tutte uguali, le Alpi sono diverse dagli Appennini e ciascuna valle ha un suo vissuto e un suo modo di essere comunità, che affonda radici e motivazioni nel passato, nella storia produttiva e sociale di quelle terre. La realtà dei territori alpini è sempre più complessa e variegata di quanto non la si voglia spesso narrare». Specializzata in storia del lavoro e delle genti, con focus specifico sulle valli bergamasche e bresciane, Michela Capra porta avanti infatti un’attività di ricerca che ha come obiettivo quello di ricucire la storia delle terre alte con le prospettive attuali, fuori da stereotipi e narrative generalizzanti.

Michela Capra, come ti sei avvicinata allo studio della montagna? Ti va di delineare il tuo percorso di ricerca e di approfondimento sulle terre alte lombarde e sui loro sistemi economici e produttivi?

I miei genitori sono insegnanti e molto legati alla dimensione del quartiere in cui abbiamo sempre abitato, cioè Borgo Trento, nella periferia nord di Brescia. Al tempo stesso erano anche molto aperti alla scoperta del mondo e in particolare della montagna, che ha sempre fatto parte del mio vissuto familiare. La frequentavamo molto, sia per scialpinismo, sia per trekking. Quindi posso dire di aver vissuto da vicino la montagna sotto vari aspetti, e di averla sempre coniugata con una dimensione per così dire “urbana”. Dopo il liceo, ho studiato Conservazione dei Beni Culturali a Parma, ed è stato proprio durante gli anni dell’università che mi sono avvicinata allo studio dell’etnografia, della cultura e delle tradizioni popolari: ho avuto la fortuna di frequentare un’università molto attenta alle dinamiche delle classi subalterne, che si rifaceva alla scuola storica francese delle Annales, e questo mi ha portata ad avvicinarmi moltissimo alla storia del mio territorio, con un occhio di riguardo alla storia del lavoro e delle genti in età di Antico Regime (quindi indicativamente dalla fine del Trecento fino a inizio Ottocento). Nella mia tesi di laurea mi sono concentrata sulla Via del Ferro in Val Trompia, e da lì in avanti il mio lavoro è proseguito su questi argomenti: storia del lavoro e delle economie locali nelle valli della Lombardia orientale (Brescia, Bergamo e in parte anche Lecco). Un percorso illuminante, perché comprendere le radici permette di comprendere meglio anche il presente.

Quando si parla di storia del lavoro e montagna, è facile cadere nell’idea che le valli alpine del passato fossero luoghi chiusi, asfittici e poveri. Un immaginario che spesso permane anche nel presente. Era davvero così? è una narrazione che corrisponde al vero, o nelle montagne di ieri c’era molto di più?

Nelle montagne di ieri c’era innanzitutto un territorio che era vissuto in maniera diversa rispetto al presente. Secondo la mia esperienza, Alpi e le Prealpi non furono terra di frontiera, ma terre di grandi scambi. Le immaginiamo chiuse e autosufficienti, ma erano zone di grandissimi movimenti, di strade e reticoli di vie di comunicazione, di circolazione di saperi… Anche grazie alla capacità dei montanari di adattarsi a un ambiente ostile, specializzandosi in mestieri quali il carbonaio, il ciclo del ferro oppure i mercati.

Rispetto alla pianura, che era soggiogata al latifondo, in montagna c’era una dimensione economica e sociale più vivace e pure più istruita, perché i montanari si erano dovuto ingegnare per comunicare con il “fuori”, perché dipendevano dai commerci e dagli scambi. Tutte le valli alpine si autosostentavano, questo è vero, ma non erano del tutto autosufficienti, innanzitutto per una motivazione strettamente climatica e morfologica: non vi crescevano abbastanza cereali per sfamare tutta la popolazione. Quindi commerciavano, si spostavano, scambiavano le proprie competenze. Erano società chiuse per struttura sociale, ma non isolate o depauperate. Al contrario.

Cosa intendi con “società chiuse per struttura sociale, ma non depauperate”?

A differenza di altre zone montane d’Italia – penso ad esempio ad ampie aree degli Appennini – nelle nostre vallate non sono mai esistite la dimensione del grande latifondo né la condizione della mezzadria. Qui è esistita da sempre la piccola proprietà in capo agli abitanti dei territori, e le comunità sono state per lunghi secoli auto-determinate e autogestite. E’ un retaggio che arriva già dai tempi basso-medievali, quando queste zone hanno avuto una forte spinta economica ma anche ottenuto ampi margini di autonomia, grazie a sistemi di rappresentanza normati da precisi statuti e retti dalle Vicinie, cioè assemblee di capifamiglia locali che di fatto auto-governavamo il territorio e gestivano i beni collettivi della comunità, come i pascoli, i boschi, le acque per il funzionamento di mulini e segherie…

Di fatto, queste valli per secoli si sono governate da sé, hanno gestito da sole il proprio territorio e le proprie risorse. Questo ne ha permesso la sopravvivenza, almeno fino all’età napoleonica, che per quanto ho potuto comprendere dallo studio della storia locale ha segnato l’inizio del declino delle aree alpine…

In che senso? Comunemente si attribuisce all’industrializzazione e allo sviluppo economico del secondo dopoguerra la causa del declino dei territori alpini…

È vero, certamente ne è stata la causa principale. Ma il declino di queste zone era iniziato già prima, nell’Ottocento, quando appunto è venuta meno la possibilità di autogovernarsi che aveva sempre caratterizzato i territori. Il sistema della Vicinie fu eliminato con Napoleone, perché in esso si vedeva un retaggio pre-rivoluzionario, poco adatto al mondo nuovo che si andava creando: quelle delle nostre valli erano società chiuse, il potere era detenuto dalle famiglie originarie e chi veniva da fuori era impossibilitato a essere rappresentato e quindi a poter usare i beni collettivi, funzionali per assicurare la sopravvivenza del singolo all’interno della comunità e della comunità stessa. Era un sistema “antico”, e la sua abolizione a favore di una progressiva centralizzazione ha segnato secondo me l’inizio della decadenza di questi territori.

I successivi accadimenti – le Guerre Mondiali, l’emigrazione verso l’estero, l’industrializzazione – hanno dato il colpo di grazia, cambiando definitivamente volto a territori che per secoli erano rimasti pressoché immutati. È cambiato il mondo e sono cambiate anche le comunità alpine, perché hanno perso ciò che le ha caratterizzate per tanto tempo.

Secondo la tua esperienza, quali sono stati i cambiamenti che hanno interessato le valli lombarde dal secondo dopoguerra a oggi?

A differenza di altri territori, quali potrebbero essere ad esempio le valli del cuneese, qui nella Lombardia orientale l’industrializzazione non ha portato con sé uno spopolamento delle vallate alpine: semplicemente essa si è innestata sul tessuto produttivo già esistente, sostituendolo e modificandolo, e infatti si tratta ancora oggi di aree con un tasso di disoccupazione molto basso rispetto ad altre zone. Certo, il secondo dopoguerra e i successivi processi di sviluppo hanno cambiato il volto geografico dei territori. Un esempio? Sono andati riempiendosi i fondovalle, perché logisticamente più comodi, più pianeggianti e più facili da raggiungere con le arterie di comunicazione: ma in passato i paesi venivano costruiti a mezzacosta, esposti al sole, sulla roccia solida e al riparo da eventuali attacchi o invasioni, mentre il fondovalle era un ambiente buio, umido, freddissimo e pericoloso. È cambiato il paradigma. Oggi, a essere abbandonate sono proprio le contrade più antiche, le più remote e lontane dalle strade principali.

Il motivo è presto detto: oggi come allora, la gente abitava dov’era comodo lavorare. Ed è il motivo per cui è impossibile parlare di “ritorno in montagna” se non si affronta la questione principale: il lavoro.

Parliamo dell’oggi, quindi: secondo te, cosa significa abitare la montagna al giorno d’oggi? Cosa comporta?

Posso rispondere alla tua domanda sia come osservatrice (ho collaborato per anni con la rivista Dislivelli, curando le interviste della sezione “Nuovi Montanari”), sia per esperienza diretta: io stessa dal 2012 al 2018 ho abitato stabilmente a Pertica Alta, nell’alta Val Sabbia (BS), un Comune sparso formato da contrade a mezzacosta, e oggi vi trascorro solo alcuni mesi all’anno perché, pur amando la dimensione montana e rurale, la vita lì per tutto l’anno era incompatibile con le mie esigenze concrete di lavoro. Quindi ti porto un duplice punto di vista, che però converge su una cosa: la centralità, appunto, del tema del lavoro.

La questione di come procurarsi un reddito è sempre stata centrale nella vita alpina, e lo è tutt’ora. Per parlare di riabitare la montagna oggi, non si può ignorare la questione. “Di che cosa vivere in montagna?”: è questa la domanda che bisogna porsi.

Nella risposta devono necessariamente rientrare anche fattori che spesso si sottovalutano, come le difficoltà di viabilità, la distanza dai servizi, la necessità di spostarsi in auto per ogni piccola cosa, le condizioni climatiche spesso ostili… E si ritorna sempre allo stesso punto: di cosa vivere? In passato, chi era forte e sano emigrava stagionalmente proprio per necessità di lavoro: erano mercanti, carbonai, lavoratori del ferro, mandriani, oppure balie, palére (venditrici itineranti di articoli in legno), lavoratrici domestiche in città… Oggi, mi pare che il ritorno in montagna sia impossibile – o quanto meno molto difficile – per moltissime persone, rimanendo quindi appannaggio solo di poche categorie diciamo privilegiate.

Ad esempio?

Penso ad esempio agli smart worker, persone che hanno cioè la possibilità di lavorare da casa pur ricavando il loro reddito altrove, e che comunque sono ancora una minoranza. Ma penso anche alle persone benestanti che si reinventano in montagna, con agriturismi, trattorie, progettualità anche molto interessanti ma che hanno in comune una cosa fondamentale: le spalle coperte – economicamente parlando – almeno per tutto il tempo necessario affinché queste attività inizino a produrre reddito, quindi almeno una decina di anni. Va da sé che chi non ha una famiglia facoltosa alle spalle o ampie possibilità economiche è maggiormente ostacolato in una scelta di questo tipo.

C’è spesso una sorta di elitarismo nella narrativa corrente del “ritorno alla montagna”.

Altra questione è invece quella delle radici: nel desiderio di andare a vivere nelle terre alte, chi è imparentato con qualcuno del posto parte innegabilmente avvantaggiato. Anche questo è un problema reale, e spesso non raccontato. Fa sempre parte del retaggio storico, sociale e culturale di cui parlavamo prima, cioè la lunga abitudine a doversi difendere dalle ingerenze esterne per tutelare i propri diritti, che ha portato alla “chiusura sociale” attorno ai nuclei originari, abituati a gestire le proprie risorse anziché aprirle all’esterno. E questo “immobilismo generazionale” si ripercuote sul presente: è un grande limite.

Oltre alla dimensione lavorativa, quali ritieni che siano gli ostacoli e le difficoltà principali del tornare a vivere in quota oggi? Quali, invece, le potenzialità dell’abitare in montagna?

Certamente, tra le potenzialità c’è la possibilità di vivere un’esistenza tranquilla, a misura d’uomo, maggiormente a contatto con la natura. La vicinanza con l’ambiente naturale dà moltissimo in termini di qualità della vita: vedere scorrere le stagioni, gustare il paesaggio che muta, dedicarsi all’autoproduzione… Sono tutti valori aggiunti che la città difficilmente può offrire. La dimensione sociale, invece, proprio in virtù di quanto abbiamo detto finora, può essere più articolata. Che non significa necessariamente negativa: si tratta solo di comprendere le motivazioni che stanno alla base di certi comportamenti. Ti faccio un esempio. Spesso nei nostri paesi di montagna manca il ricambio. Siccome la gente da fuori – che potrebbe portare innovazione e piccola imprenditoria – fatica a insediarsi, la comunità locale tende a vivere in una sorta di immobilismo: tra di loro si guardano molto, vengono tutti da un destino e da una povertà comune (riscattata poi con il boom economico) e hanno mantenuto un buon legame con la propria terra. L’industrializzazione recente delle vallate bresciane e bergamasche – unita alla tradizionale cultura del risparmio della gente dei paesi – ha permesso negli ultimi decenni in queste zone un grande accumulo di capitali, sia mobili che immobili: le case e i terreni sono di proprietà, non c’è l’esigenza di “vendere” per mantenersi, tutt’altro!

Inoltre c’è tradizionalmente molto controllo sociale, e questo è sia una risorsa sia un limite: non sempre possono “entrare” i grandi speculatori (preservando così il territorio), ma sono ostacolati anche i piccoli investitori che potrebbero portare una ventata di innovazione.

Secondo te cosa può insegnare la storia a chi oggi guarda alle montagne come luogo di vita? Possiamo trarre qualche spunto pratico per immaginare un ritorno alla montagna costruttivo e non solo elitario?

Sono convinta di sì. Dallo studio delle società montane del passato e delle loro forme di organizzazione possiamo trarre spunti interessantissimi – ovviamente da riattualizzare – per provare a costruire nuovi percorsi sostenibili, non solo sotto il profilo ambientale ma anche sociale ed economico.

Penso che se ci vuole tornare a vivere le montagne, sia necessario abbandonare l’idea individualistica dello stare lì: è un dispendio enorme di capitali e di energie. In passato, nessuno viveva in montagna “da solo”, ci si viveva come comunità. Ecco, questa secondo me è una lezione da portare nel presente.

In che modo? Penso agli ecovillaggi, che pur in misura diversa e variegata provano a ricostruire come comunità quella solidarietà di base e quel mutuo aiuto che erano le fondamenta delle società alpine. Non si tratta di escludere la proprietà privata, ma di condividere determinati mezzi e beni per ovviare a dispendio di denaro e a problemi che, vissuti individualmente, sarebbero pesantissimi. In passato erano i boschi e i pascoli, oggi potrebbero anche essere una compartecipazione condivisa a strutture produttive (come caseifici, o magazzini) oppure a mezzi quali trattori o spalaneve. Percorsi di questo tipo sono già stati avviati in alcune zone d’Italia: penso ad esempio all’associazionismo fondiario o alle cooperative di comunità, tutti esempi di collettivismo e condivisione che potrebbero essere replicati altrove.

Cosa consiglieresti a chi, oggi, pensa a un “cambio di vita” e guarda alla montagna come possibile nuovo scenario?

Ogni esperienza è a sé. Penso che chi sente il bisogno di fare questo passo, e ha i mezzi per farlo, troverà nella montagna una dimensione molto arricchente. Dalla montagna si torna sempre cambiati, questo è certo. Io consiglierei però di stare almeno un anno in affitto su un territorio, prima di acquistare casa e terra a scatola chiusa.

Conoscete la gente, il posto, guardate che giro fa il sole, capite com’è il suolo, come e cosa si potrebbe coltivare. Misuratevi con le strade, con l’inverno, con l’assenza di comfort, con le scomodità logistiche e le difficoltà pratiche: la corrente che salta, la frana che blocca la strada, Internet che arriva a scatti, il ghiaccio, il freddo…

Inoltre, entrate sempre in punta di piedi nelle comunità locali. Sono comunità molto diverse da quelle urbanizzate e prima o poi è facile scontrarsi con questa mentalità. Quindi, andate con cautela e rispetto, provate a comprendere, non giudicate e non imponetevi con pregiudizi del tipo “Loro sono tutti ignoranti, io ho studiato, io sono migliore”. Se si arriva con arroganza, è una battaglia persa in partenza.


Michela Capra si occupa principalmente di etnografia e di storia locale economica e sociale, incentrate sul lavoro agricolo e artigianale di epoca pre-industriale in area bresciana, specialmente alpina e pre-alpina. Qui alcune delle sue pubblicazioni:

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