sabato , 27 Luglio 2024

Ascolto, un atto politico che restituisce dignità. Intervista a Beatrice Verri

Memoria attiva, partecipazione, ritessitura del rapporto tra passato e presente, ma anche questioni di genere e necessità di restituire la dignità a territori marginalizzati e dimenticati: sono questi capisaldi della Fondazione Nuto Revelli, che sulla scia dell’opera ispiratrice del partigiano e scrittore cuneese Nuto Revelli prova oggi a costruire nuovi percorsi per tornare a riabitare la montagna. E lo fa recuperando e valorizzando l’immenso patrimonio di voci, saperi e conoscenze alpigiane che Nuto aveva raccolto, stenografato e pubblicato nei suoi libri Il mondo dei vinti e L’anello forte prima che andassero perdute per sempre, testimonianze e ricordi di un mondo montano che è stato sbiadito e mangiato dal progresso, dalle fabbriche, dalle promesse di una vita più comoda altrove: «Nuto praticava l’ascolto come atto politico ed è così che cerchiamo di portare avanti il suo operato», spiega Beatrice Verri, direttrice della Fondazione Nuto Revelli, che ha seguito e coordinato tutto il recupero di Borgata Paraloup, alpeggio in Valle Stura nonché quartier generale delle brigate partigiane cuneesi, da tempo abbandonata e poi rigenerata proprio all’interno di un percorso costruito ad hoc per la montagna dalle radici. «E la memoria è la base di partenza per promuovere un ritorno alla montagna che sia, al contempo, ricordo di chi c’era e possibilità per chi ci sarà».

Beatrice Verri, iniziamo parlando della Fondazione Nuto Revelli, del suo lavoro e dei suoi capisaldi: che valore ha oggi il suo operato e il recupero del lavoro di Nuto Revelli?

La fondazione ha sede a Cuneo, nella casa di Nuto Revelli, dov’è conservato l’archivio storico dell’autore con tutto il materiale relativo alla guerra di Russia, alla guerra partigiana e alle interviste di vita contadina. Un fondo sonoro, quest’ultimo, di oltre 1500 ore di di registrazioni orali, fra cui le testimonianze dirette dalle valli cuneesi in spopolamento, raccolte una per una da Nuto che aveva capito ciò che con il tempo è diventato evidente a tutti: che quel mondo alpigiano negli anni Sessanta stava scomparendo e non sarebbe mai più tornato. E che quindi era fondamentale fissarlo, salvarlo dall’oblio nelle parole di chi, ultimo e vinto, lo stava vivendo nella fase dell’evanescenza.

Ecco, noi è da qui che partiamo: dalla prospettiva di Nuto Revelli sulla montagna. Una prospettiva attualissima, che usava l’ascolto come atto politico per ridare dignità a gente abituata a essere tralasciata dalla politica. Ed ecco che allora oggi parlare della fondazione significa parlare anche della sua sede “territoriale”, del suo braccio montano, cioè Borgata Paraloup.

Un progetto ambizioso e inedito, quello di Borgata Paraloup: ti va di raccontarcelo meglio?

Siamo a Rittana, in Valle Stura, provincia di Cuneo, a 1.360 metri: il toponimo Paraloup in occitano significa “al riparo dai lupi”, era un’antica borgata abitata tradizionalmente come pascolo estivo. Durante la guerra di Resistenza è diventata il primo quartier generale delle bande partigiane di Giustizia e Libertà del cuneese, capitanato fra gli altri anche dallo stesso Nuto Revelli: ma quella della borgata fu una “resistenza di comunità”, perché senza l’aiuto e il supporto delle comunità del territorio sarebbe stato difficile per i partigiani organizzarsi e resistere ai rastrellamenti. Poi, com’è capitato a molte aree montane, anche borgata Paraloup è stata con il tempo abbandonata, fino a quando la fondazione ha deciso di acquistare le baite per farne un luogo di memoria doppia: quella della guerra partigiana, ma anche quella della vita contadina. Ne è nato un progetto di riqualificazione architettonica, energetica, culturale in quota, un vero modello di sviluppo sostenibile per la montagna: per la prima volta, un istituto culturale si è fatto promotore della rigenerazione di un’area marginale a uso culturale. Città e montagna si trovano così collegate, unite idealmente all’interno di un percorso comune volto a dare corpo e continuità alla memoria dei luoghi, delle genti che li hanno abitati e che li abiteranno in futuro.

Attenzione però: la nostra idea non è mai stata quella di creare un museo della Resistenza in quota: volevamo piuttosto creare una cellula staminale per il ritorno in montagna, un laboratorio di sperimentazione comunitaria per tornare a vivere e lavorare nelle terre alte partendo dalla cultura. È un’unione di memoria e innovazione lungo la linea del tempo, ieri e oggi.

Tra i progetti della Fondazione, c’è anche la call Wecho dedicata alle donne di montagna, quelle che Nuto Revelli definiva “l’anello forte” delle società montane e che erano diventate le protagoniste dell’omonimo libro-testimonianza. In che cosa consiste questo progetto?

Nuto Revelli aveva capito che la donna era non solo l’anello forte della trasmissione di memoria, ma anche un elemento determinante per i cambiamenti sociologici in atto in quegli anni. La riflessione sul femminile in montagna è nata da questa consapevolezza ed è andata approfondendosi poi con i dati attuali: secondo una ricerca che ho svolto alla CCIAA di Cuneo nel 2012, il 70% delle imprese aperte nel cuneese sopra i 600 metri nell’ultimo anno è a guida femminile. Anche oggi quindi le donne sono motrici del cambiamento. Ecco, questo è un tema molto caldo e molto sentito, ed è da qui che siamo partite per scrivere il progetto Wecho, che parte dal punto di vista delle donne che abitano e lavorano la montagna per attivare pratiche e strumenti necessari affinché una transizione ecologica, economica e sociale avvenga tenendo conto anche di questa presenza attiva del femminile nelle terre alte italiane.

Il primo step del progetto Wecho è la “chiamata a raccolta” delle voci delle donne che abitano – o vorrebbero abitare – le terre alte, e in questa prima fase di raccolta delle testimonianze, stanno emergendo i medesimi bisogni: mobilità, spazi di aggregazione, connettivi sociali… La voce delle donne è potenzialmente rivoluzionaria e proprio per questo è fondamentale che arrivi ai decisori, e che i decisori politici si rendano conto che queste voci contano, hanno peso e corpo. La call è aperta fino alla fine di gennaio 2022.

Secondo le testimonianze raccolte finora, come sono le donne di montagna di oggi?

Non so dare una risposta universale a questa domanda: abbiamo solo piccole finestre su singole storie di vite individuali che di certo non possono fare statistica. Di comune a queste storie, però, c’è l’individuazione della montagna come un ecosistema del cambiamento, come condizione per sprigionare il proprio potenziale: una condizione che in città è percepita come mancante.

Questo è dovuto probabilmente molto anche al fatto che in montagna c’è spazio, cioè spazio fisico. Le aree interne montane sono state abbandonate così a lungo che nel corso del tempo erano state svuotate di vita: oggi, quindi, sono spazi di possibilità che potrebbero tornare a essere luoghi, significati da corpi che vi praticano scelte attive. E questo vale per le donne così come per gli uomini, ovviamente.

Che senso e che valore ha, oggi, leggere “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli? Quelle raccolte dallo scrittore sono testimonianze capaci di parlare anche al presente?

Ha senso ed è attualissimo, sì, perché le radici contadine raccolte ne “Il mondo dei vinti” – come portato di immaginari e saperi – sono il comune denominatore di tutte le popolazioni del mondo: sono le radici comuni su cui ragionare per recuperare un senso di reciprocità e comunità.

Ma ha senso anche perché la montagna, pur essendo oggi uno straordinario serbatoio di spazio e possibilità, è rimasta lo stesso ambiente duro e inospitale degli anni Sessanta. E identica è rimasta anche la miopia istituzionale, che già Nuto Revelli denunciava e che ha portato alla sparizione di un’intera civiltà, quella alpina: così, come sessant’anni fa, si continuano a costruire impianti e autostrade anziché fare strategia a lungo termine sulle aree interne. Ecco perché l’archivio della fondazione è così importante: perché quelle memorie, grazie al digitale, sono tornate a parlare. Perché uno spazio ridiventi un luogo, serve la voce di chi lo ha vissuto e di chi ci ha abitato. E questo può aiutare chi oggi decide di tornare.

Cosa consiglieresti a chi, oggi, pensa a un “cambio di vita” e guarda alla montagna come possibile nuovo scenario?

Consiglio innanzitutto di guardare il film “Il vento fa il suo giro”, un film vero e duro sulla tematica, e consiglio l’umiltà di accettare i tempi altrui, anziché imporre i propri. Credo che la scelta di andare ad abitare in montagna richieda coraggio, attenzione e pazienza.

Ma anche una consapevolezza di fondo: quella cioè che ci si sta inserendo in comunità fragili e in sofferenza. Comunità che all’inizio possono essere respingenti: eppure, mettendo da parte l’ego e dimostrando la volontà di capire e ascoltare ciò che chi vive il territorio ha da dire, allora si possono creare degli ottimi connettori. Ma bisogna volerlo. Bisogna imparare ad ascoltare.


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