venerdì , 19 Aprile 2024

Vita da pastori nomadi

Piove, piove come dio la manda. C’è una nebbia bassa e umida, e giù dalle strade acciottolate ruscellano rivoli d’acqua gelata che inzuppa le scarpe e l’orlo dei pantaloni a ogni passo. Chiusi nella Panda – e con una gran voglia di cornetto e cappuccino in questa domenica mattina grigiastra e respingente – stiamo scendendo da casa verso il solito bar di fiducia: siamo a Bergamo, ma abbiamo la fortuna di abitare praticamente in campagna, tra i colli ondulati che anticipano l’arricciarsi delle vallate bergamasche appena alle spalle dell’abitato urbano. Per giungere al bar dobbiamo così attraversare un contesto bucolico fatto di prati, boschi, un vecchio monastero e vitigni sparsi: ogni volta un’illusione, piacevole, di una natura capace talvolta di armonizzarsi con la città… Ma non oggi. Non con questo tempo da lupi.

In questa atmosfera da fuoco-e-libro, l’ultima cosa a cui ho voglia di pensare è scendere dall’auto e fare interviste: non fosse che, a un tratto, il muricciolo si apre e nel prato sottostante, ai piedi del monastero di Astino, fradice di pioggia e di fango, scorgiamo una miriade di pecore. Poco più avanti, poggiati mollemente ai bastoni accanto a un pick-up e avvolti in mantelli e impermeabili, alcuni pastori chiacchierano e intanto controllano gli animali, mentre quattro o cinque cani fanno la spola tra i padroni e il prato, tenendo d’occhio la situazione. Un maremmano da guardiania sonnecchia tra gli ovini e di tanto in tanto alza il capo, si guarda attorno, torna a stendersi.

Ha sempre un che di atavico incontrare i pastori alle porte della città: proietta in un tempo antico e insieme contemporaneo, fa risalire nell’animo una suggestione ancestrale di radici e fascinazione. E infatti tra me e il mio compagno basta uno sguardo: dimenticata la colazione, molliamo la Panda in un parcheggino nel fango, scendiamo sotto la pioggia e ci avviciniamo al gregge.

Storie di pastorizia transumante

Chi sostiene che i montanari in generale – e i pastori in particolare – siano chiusi e burberi, forse non ha mai conosciuto un pastore. E infatti basta una domanda, “Di dove siete?” perché subito si inizi a chiacchierare. E’ Marco Cominelli, pastore dell’alta Valle Seriana, a rompere il ghiaccio e a raccontarsi, a dispiegarci davanti agli occhi la realtà di ciò che significhi vivere di pastorizia oggigiorno. Tabarro nero e cappello in lana d’ordinanza, stivali in gomma infangati fin quasi alle ginocchia e un grande sorriso sul volto affabile e alla mano, Marco ci mostra gli animali, che stanno pascolando placidi sul prato incuranti della pioggia: tra le zampe bianche delle pecore adulte, zampettano qua e là numerosi agnellini dal musetto curioso e dalle lunghe orecchie candide. Oltre agli ovini, si distinguono anche qualche cavallo, alcune capre e un mulo. “Sono pecore di razza bergamasca, una razza da carne e da lana”, spiega Marco. “Anche se gestire la lana, oggi, è una grandissima rogna. E’ difficile, anzi, quasi impossibile trovare chi lavi anche i piccoli quantitativi, così va a finire che diventa solo un rifiuto. Uno scarto da smaltire, e quindi un costo”. Marco e il suo collega, il giovanissimo Manuel Lo Bosco, praticano ancora la pastorizia transumante: cioè si spostano ogni giorno di prato in prato per nutrire i propri animali. Una vita nomade a tutti gli effetti, che durante l’inverno li tiene nella bassa, attorno alla città di Bergamo, e che in estate li riporta in quota, lungo la Valle Seriana fino agli alpeggi di Lizzola o alla Valle Camonica bresciana.

“Sai qual è la cosa più difficile? Trovare i prati dove farle pascolare”, dice. “Vedi? E’ tutto sempre più cementificato. Per fortuna qui attorno alla città di Bergamo ci conoscono un po’ tutti, quindi riusciamo sempre a trovare spazi adatti agli animali”.

Le fatiche (attuali) di un lavoro antico

Nelle parole di Marco, la passione per questo lavoro si alterna a una certa disillusione. O è stanchezza, forse? “Il problema è che per la maggior parte della gente il pastore è qualcosa di folkloristico, che va bene giusto per fare qualche foto suggestiva e qualche apparizione a Natale“, racconta. “Per il resto, preferirebbe non averlo tra i piedi. Perché gli animali puzzano, sporcano le strade, rallentano il traffico. Perché non piace averle sotto casa. Perché i cani da pastore – che sono cani da lavoro, devono stare liberi perché sono fondamentali per la gestione delle pecore – mettono paura ai cagnolini da passeggio. Perché chiediamo spazio per nutrire i nostri animali e magari ci lamentiamo se continuano tutti a metterci vincoli. Ma con cosa le nutro le pecore, altrimenti? Di aria? La maggior parte della gente non ha idea di che cosa significhi pare il pastore oggi. E le recenti politiche agricole nazionali e comunitarie non aiutano affatto…”.

Il riferimento è ampio. Non riguarda soltanto la difficoltà a trovare pascoli in quota durante l’estate, ma anche i vincoli sempre più stringenti rispetto alle aree protette (ad esempio lungo gli argini dei fiumi, dove il passaggio delle greggi aiuta a mantenere pulito e ordinato, ma che oggi sono spesso interdetti ai pastori per la protezione di animali selvatici, soprattutto volatili in nidificazione) e le politiche agricole anticipate dalla nuova PAC 2023-2027, che, spiega ancora Marco “imporrebbe agli spazi coltivati la pratica del sovescio per mantenere nutrito il suolo: ma prima le pecore le facevamo pascolare sui terreni inutilizzati durante l’inverno. In questo modo, invece, i terreni messi a sovescio non potranno più essere utilizzati per il pascolo…”. A ciò si aggiungono anche le difficoltà che gli allevatori in montagna riscontrano nel confronto con la fauna selvatica, soprattutto lupi e orsi, e la fatica a far comprendere le proprie istanze a chi legifera, sì, ma lo fa dalla città, senza toccare con mano la quotidianità di questo lavoro e le problematiche che esso porta con sé.

“Andrebbero ascoltate tutte le istanze”, commenta. “Altrimenti si fa ideologia sulle spalle di chi, come noi, cerca di portare avanti un lavoro che è anche cura del paesaggio e dell’ambiente, mantenimento delle tradizioni, legame con il territorio”.

Lavoro o passione?

Le difficoltà contingenti sono uno dei motivi per cui Marco sta lentamente passando il testimone al giovane Manuel Lo Bosco. Ventitrè anni la prossima primavera, Manuel lavora con gli animali già da parecchio: “non è una cosa che fai se non hai la passione per questa vita”, racconta. Non ci sono vacanze, feste, weekend, domeniche libere: gli animali devono mangiare sempre, devono essere sempre spostati e accuditi. Se fosse solo per i soldi, forse non ne varrebbe la pena. “Poi certo” ride “Nelle giornate come oggi, la passione fai fatica a sentirla”.

Mentre parliamo, gli altri collaboratori hanno già iniziato a togliere la recinzione elettrificata attorno al gregge, e i cani tengono a bada le pecore che tendono ad allontanarsi. “E’ tempo di spostarle”, spiega Marco. “Qui brucano da ieri sera, ormai l’erba è finita. Oggi scendiamo in quel prato là sotto”, e indica un altro appezzamento ai piedi della collina. Li salutiamo, auguriamo loro buon lavoro.

“E’ importante che se ne parli”, conclude Marco mentre li lasciamo ai loro animali. “Altrimenti sai che succede? Che i pastori spariscono. Poi tra qualche decennio tireranno fuori qualche finanziamento europeo per riscoprire il lavoro pastorale e insegnarlo daccapo ai giovani. Ma la soluzione già c’è: basterebbe non farlo morire!”.

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