mercoledì , 1 Maggio 2024

Turismo, social, wilderness: come parlare oggi di montagna? Intervista a Eleonora Sacco

Montagna come luogo della wilderness a due passi da casa, come luogo dell’altrove e del ridimensionamento dell’ego. Montagna come educazione all’alterità, all’umiltà e alla piccolezza, ma anche montagna come luogo che subisce gli effetti di una narrazione tossica, spesso estetizzante e stereotipata, altrettanto spesso bulimica e lontana dalla realtà. Di questo e di molto altro ho parlato con Eleonora Sacco (in arte Pain de Route), giovane autrice, podcaster e consulente ma soprattutto e prima di tutto “viaggiatrice selvatica” rodata tra le strade meno battute delle montagne europee e i sentieri del Caucaso e dell’Asia centrale: abbiamo parlato delle sue esperienze montane, di ciò che rappresenta per lei la montagna e di ciò che il turismo e la narrazione social fanno o potrebbero fare (in bene e in male) per i territori più fragili e meno sfruttati. Perché, come dice Eleonora, «troppo spesso la montagna è guardata oggi con lo stesso sguardo paternalista con cui vengono guardati i paesi di quello che alcuni ancora chiamano ‘Terzo Mondo: come qualcosa che deve mantenersi “esotico” per assicurare l’intrattenimento a qualcun altro. Così, per lo sguardo estetizzante che ha il “cittadino” sulla montagna, il “montanaro” dovrebbe ancora vivere in una baracca soltanto scaldandosi con la stufa a legna, solo per soddisfare l’immagine che egli ha di questo ambiente. Ed è un problema».

Eleonora, grazie per questa intervista! Tu hai ormai all’attivo un lungo percorso di viaggi in luoghi remoti e poco battuti dell’Europa e del mondo, in particolare dell’Est. ciononostante, anche la dimensione montana ricorre molto spesso nelle tue esplorazioni: la montagna è una costante dei tuoi percorsi, un fil rouge che spesso accompagna il tuo viaggiare e il tuo scoprire. Come ti sei avvicinata al mondo in quota, da persona che è cresciuta in città?

Sono andata in montagna fin da piccola, ma sono sincera: fin verso i diciassette anni l’ho odiata e disprezzata con tutta me stessa. Credo fosse perché nella mia educazione nessuno mi aveva mai spiegato che cosa fosse o potesse essere la montagna… Il che forse è anche positivo, perché poi è una dimensione che ho scoperto da sola, con i miei ritmi e i miei tempi, ed è stata sicuramente una sfida più stimolante e avventurosa. Prima, invece sono sempre stata portata in montagna senza dirmi perché ci stavamo andando, senza darmi un contesto o una spiegazione. Giusto per dirtene una, venivo spesso mandata a fare le vacanzine in montagna con l’oratorio, e di quelle esperienze ho ricordi tragici: ore di camminate in fila sotto la pioggia, arrivi in cima e non vedi niente, il pranzo era poco più di un panino con il tonno scolato dalla lattina nelle rocce…. Il mio incontro con la montagna è stato essenzialmente un trauma.

Poi però, crescendo, e neanche so dire bene quando sia successo, il mio sguardo sulla montagna è cambiato. La montagna è diventata la risposta possibile a una crescente esigenza di selvaggio, di ricerca di qualcosa che fosse meno antropizzato possibile: su questo aspetto specifico, per quanto riguarda le Alpi, possiamo aprire un capitolo a parte, adesso so bene quanto il paesaggio alpino sia antropico.

Ma da persona cresciuta in città, nella montagna ho cercato – e trovato – una risposta all’esigenza di spazi aperti, mancanza di asfalto, grandi panorami, solitudine e silenzio. Ci sono insomma arrivata con il tempo: non ho avuto alcuna educazione da montanara DOC.

La mia riscoperta della montagna è avvenuta con la riscoperta del selvaggio, nata a sua volta con i primi viaggi. Il primo viaggio è stato nel 2012, nelle Cicladi, in Grecia. È stata la prima volta in cui ho fatto autostop, ho dormito in tenda, ho visto un cielo stellato vero: è stata la prima volta in cui mi sono davvero trovata a dover “sopravvivere” da sola, in cui mi sono messa in una situazione di discomfort e in cui mi sono interfacciata con un paesaggio a suo modo “selvaggio”. Ecco, queste sono le sensazioni che poi ho sempre cercato nei miei viaggi: la distanza maggiore possibile dalla città e dall’ambiente urbano. Nella montagna, ho trovato il posto selvaggio più vicino a Milano.

Adesso che cosa rappresenta per te la montagna?

Adesso per me andare in montagna è un modo per rimettere in prospettiva i problemi della vita. In montagna ti rendi conto che fai parte di un ecosistema più grande delle quattro mura di casa tua e dei problemi che ti arrivano nella casella mail. Può sembrare una cosa banale, ma per me è proprio un esercizio di ricollocamento della tua persona all’interno di un ecosistema più grande e all’interno dell’universo.

Cioè, ti rendi conto che sostanzialmente la tua vita inizia e finisce in cicli di tempo che sono totalmente irrilevanti per il mondo che ti circonda, e questo smorza un po’ le aspettative che hai su di te. Ti rimette al tuo posto nel mondo. Per me, questo è importante. È anche un modo per trovare una sorta di pace interiore. Al tempo stesso, mi rendo perfettamente conto che questo è il modo di vivere la montagna di una persona che, alla fine, è nata e cresciuta in città.

Nei tuoi viaggi e nei tuoi racconti, parli spesso anche degli incontri con persone che vivono la montagna. Nella tua esperienza e per gli incontri che hai fatto, quali sono le problematiche principali che emergono tra chi abita questi territori?

Senza voler banalizzare o appiattire storie anche molto diverse tra loro, tra le persone con cui ho parlato emergeva soprattutto una costante: il conflitto con l’autorità o con la città. Anzi, per essere più precisi, con la dimensione urbana come tale, che in montagna è spesso percepita come qualcosa di predatorio: viene qui, prende quello che le serve ma poi non lascia niente.

Ti faccio un esempio. Durante un viaggio in Val Resia, in Friuli Venezia Giulia, siamo stati a cenare presso una baita gestita da una famiglia resiana, che ci ha raccontato di aver dovuto buttare via oltre trecento euro di carne stoccata nel freezer perché i continui e ricorrenti blackout alla rete elettrica l’avevano danneggiata. Questo perché il fornitore di energia non ritiene utile né conveniente manutenere la rete anche per zone così remote… Sebbene questi blackout causino ingenti danni economici, sia di spesa che di mancato guadagno, alle persone che abitano quelle zone.

Ci si sente l’ultima ruota del carro, abbandonati dalle autorità che però al tempo stesso pretende di sfruttare quei medesimi territori, per turismo o per le loro risorse.

Un’altra problematica che mi pare emerga spesso, soprattutto per chi abita in zone che sono tutelate come riserva naturale, è il conflitto con l’autorità del parco o della riserva. L’attuale concezione di parco naturale richiede spesso una massima tutela del paesaggio a discapito di chi risiede in quelle zone e ha esigenze di vita come tutti gli altri: e queste esigenze, anche se nella maggior parte dei casi non sono impattanti e anzi sono integrate sul territorio, finiscono spesso per andare in collisione con il fatto che quello stesso territorio è visto come un santuario intoccabile.

Una sorta di idealizzazione della montagna a discapito di chi ci abita, dunque?

Sì, in un certo senso sì. E sono dinamiche che vedo agire anche in altre zone montane che conosco abbastanza bene, come il Caucaso: la protezione ambientale da un lato, la promozione turistica dall’altro, e nel mezzo la necessità di sostentamento della gente che lì ci vive. Spesso sono anche zone molto remote, totalmente prive delle infrastrutture atte ad accogliere il turismo massiccio che viene sponsorizzato, e questo crea un ulteriore cortocircuito: le persone arrivano qui con aspettative molto alte e molto diverse da ciò che poi realmente trovano, e non si rendono minimamente conto che stanno visitando zone dove non è sempre possibile assicurare il medesimo approvvigionamento di cibo, elettricità, internet o comfort che si trova invece in una città. Non se ne rendono conto perché sostanzialmente troppo spesso non hanno idea di come si viva al di fuori di una città.

Quali sono le montagne, in Italia o all’estero, a cui sei particolarmente affezionata, e perché?

Le zone che apprezzo sono tantissime, è difficile e forse anche sbagliato pensare di fare una classifica. In generale, le Alpi sono bellissime e ti posso dire che lo sono anche rispetto a tante altre zone montuose che ho visto nel mondo: non per nazionalismo o campanilismo, ma per il semplice fatto che pur essendo montagne “piccole” hanno delle forme incredibili, sono accessibili anche a chi non è alpinista, hanno una varietà etnica linguistica e culturale oggettivamente eccezionale.

Ciò detto, un luogo montano a cui sono particolarmente legata in Italia è la Val Grande, in Piemonte: è una zona che ho riscoperto solo da tre o quattro anni, ma in cui sono tornata più spesso. È un luogo in cui si “entra”, c’è un dentro e c’è un fuori e lo dicono tutte le persone che la conoscono e frequentano: non si dice “vado in Val Grande” ma “entro in Val Grande”. È come passare una porta spazio-temporale che ti trascina in un posto estremamente remoto e selvaggio a sole due ore di macchina da Milano. Per dirti, dai picchi della Val Grande vedi la colata di cemento dell’aeroporto di Malpensa: però, allo stesso tempo, se sei dentro le valli non c’è un palo della luce, non c’è una strada, non c’è una luce. Sei immerso nelle montagne, ed è oggettivamente anche una zona pericolosa, un vero labirinto in cui ogni anno molta gente si perde, o peggio.

A me piace perché è realmente sfidante: ma una sfida molto diversa dalla “sfida della vetta”. È una sfida dell’orientamento in un gorgo di valli tutte uguali, boscose e fittissime. È una zona veramente intatta, anche se a dire la verità si tratta di un caso di “wilderness di ritorno”: non è una zona che è sempre stata selvaggia, anzi! Questa zona ha fornito legname per un sacco di grandi opere architettoniche in Lombardia e Piemonte, a cominciare dal Duomo di Milano: di fatto, fino a qualche decennio fa la val Grande era quasi completamente disboscata e interamente abitata. È stata poi abbandonata a partire dagli anni Sessanta, quando la gente ha capito che non sarebbero arrivate strade, non sarebbe arrivata l’elettricità, non sarebbe arrivata la modernità. Così se ne sono andati (quasi) tutti. E il selvaggio è tornato a occupare la montagna.

Oggi in Val Grande ci abita qualcuno?

Sì, c’è gente che ha tenuto delle seconde case e delle baite, sempre in zone remote e che richiedono ore di camminata per arrivarci. C’è anche un residente ufficiale del parco, Piero, che abita lì tutto l’anno, e a Cicogna (l’unico paese sito all’interno del Parco della Val Grande) abitano all’incirca venti persone. C’è solo una strada che collega Cicogna a “fuori”, una serpentina ripidissima e soggetta a crolli… È una delle strade più brutte su cui ho guidato nella mia vita, e te lo dico dopo aver viaggiato sulle peggio strade di montagna del Caucaso!

Prima parlavi di wilderness di ritorno in Val Grande: perché questo è un aspetto che ritieni importante? Che cosa ci dice, il selvaggio di ritorno, a proposito di questi territori?

Come molte altre zone montane in Italia, anche la Val Grande si è spopolata da pochi decenni. Prima, come dicevamo, era molto abitata e antropizzata. Quindi il bosco che oggi ingloba i vecchi paesi e le baite è di fatto un bosco che ha appena una cinquantina d’anni.

Questo ci dimostra che il selvaggio è relativo e che i luoghi non sono selvaggi a prescindere, e ci fa riflettere sul ruolo della presenza umana nelle zone di montagna: il paesaggio che conosciamo ora sulle Alpi è un paesaggio che reca la mano dell’essere umano da secoli. Entrando in Val Grande ci si rende conto che bastano davvero pochi anni perché tutto questo muti.

E questo ci riporta al tema di cui parlavamo poco fa. Se l’autorità fa politiche locali senza interpellare la gente che abita i territori, quelle politiche saranno sempre fallimentari perché non si agganceranno mai ai reali bisogni delle persone.

Secondo te la narrazione corrente sulla montagna è veritiera e realistica, o parte da un pregiudizio di base che influenza qualsiasi discorso sulle terre alte prima ancora di cominciare?

Credo che troppo spesso la montagna sia guardata oggi con lo stesso sguardo paternalista con cui vengono guardati spesso i paesi di quello che alcuni ancora chiamano «Terzo Mondo»: come qualcosa che deve mantenersi “esotico” per assicurare l’intrattenimento a qualcun altro. Così, per lo sguardo estetizzante che ha il “cittadino” sulla montagna, il “montanaro” dovrebbe ancora vivere in una baracca soltanto scaldandosi con la stufa a legna, solo per soddisfare l’immagine che egli ha di questo ambiente. Ed è un problema.

Da un lato, quindi, la montagna è inquadrata più o meno apertamente come una zona di ignoranti, arretrati, poco inclini a modernizzarsi. Se però le comunità dei territori alti provano a cambiare qualcosa, apriti o cielo: si stanno snaturando, stanno perdendo le loro tradizioni, non è più come una volta.

È una sorta di orientalismo applicato a casa propria: il punto di vista della persona esterna (solitamente più ricca, o più privilegiata, se non altro per un fattore di comfort urbano) che ha bisogno di essere intrattenuta, che ha bisogno che ciò che sta fuori rimanga “altro da sé” per soddisfare il proprio gusto di esotico. È una narrazione su cui lavorare.

Dopo il Covid c’è stata riscoperta delle terre alte, perché erano più vicine e accessibili di altre mete. Secondo la tua esperienza di accompagnatrice di gruppi turistici in aree remote e viaggiatrice selvatica, il turismo può essere un reale fattore di sviluppo per la montagna?

Sì, credo che possa assolutamente esserlo. A una condizione: che sia un turismo rispettoso, un turismo che coinvolga la gente che vive su quei territori e che ne rispetti limiti, regole, usanze. Chiaramente, per una configurazione del territorio e per sua stessa natura, la montagna non è adatta al turismo di massa: la macchina turistica non può crescere all’infinito, i servizi e gli spazi sono sempre quelli. Inoltre, qualsiasi infrastruttura costruita in montagna per soddisfare un turismo di massa – impianti, disboschi, abusi edilizi – è entrata in declino ed è stata abbandonata dopo aver “servito” il picco massimo, scempiando irrimediabilmente il territorio senza peraltro lasciare niente alle persone.

Invece ci sono altri modi per fare turismo in montagna, attività che obbligano a ritmi più lenti, che richiedono impegno, tempo e sforzo, e che magari non sono adatti a tutti. Personalmente, non credo all’idea che il turismo debba permettere a tutti di fare qualsiasi cosa, perché il mondo non è lì solo per noi e i nostri desideri. Ti faccio un esempio: io di sicuro non scalerò mai l’Everest, perché non ne sono fisicamente in grado e anche perché non voglio che qualche sherpa rischi la vita per portarmi i bagagli sulla cima così che io possa soddisfare un mio capriccio. Prendo atto della mia incapacità fisica e vivo serena nell’accettazione di un mio limite, perché superare quel limite significherebbe avere un impatto spropositato e impegnativo su un territorio che, di per sé, per me rappresenta un ostacolo. Questo non significa che non si possano comunque trovare soddisfazione, sfida, adrenalina in montagna: semplicemente, non tutto e per tutti. Quindi, per definizione, la montagna non è per le masse.

E bada bene, non lo dico per elitarismo o snobismo. Al contrario! La montagna oggi di per sé è forse l’ambiente più economicamente accessibile di tutti, percorrere i sentieri è gratis e in moltissimi casi ci si può arrivare con i mezzi pubblici. Andare in montagna, vivere la montagna è probabilmente l’attività più democratica che c’è, ma questo è diverso dal dire che chiunque debba sentirsi legittimato a pretendere di farci qualsiasi cosa.

Secondo te è giusto parlare sui social e sul web dei luoghi selvatici e meno conosciuti? Meglio parlarne e far conoscere le loro peculiarità, o meglio tenerli celati per evitare una sovraesposizione mediatica e quindi eccessivi afflussi turistici? Intendo per la montagna, ma anche per qualsiasi altro ambiente.

Questa è un aspetto su cui mi interrogo da moltissimi anni, perché parte del mio percorso di viaggiatrice, autrice e consulente si è sviluppato anche sui social e anche grazie al web. Anni fa, mi capitava spesso di indignarmi perché alcune zone del mondo non venivano minimamente prese in considerazione pur essendo oggettivamente pazzesche: oggi, invece, sono più sulla linea di non comunicare queste zone se non sono pronte ad accogliere il turismo, o almeno di comunicarle in modo attento e calibrato, evitando di dare informazioni a tutti indiscriminatamente.

Ormai è appurato che il turismo fa danni ai territori. Detto ciò, porta anche benefici, ma è un bilanciamento che va misurato con il contagocce: ci sono zone che vorrebbero avere più turismo ma non sono minimamente pronte a riceverlo o a gestirlo, non hanno ancora sviluppato una consapevolezza completa dei danni che il turismo fa, né di come le pratiche sociali e le tradizioni ne vengano irrimediabilmente alterate. Manca completamente questa consapevolezza, e questo rende certi posti estremamente fragili. Avendo viaggiato spesso nei paesi dell’Est, mi sono interfacciata nella maggior parte dei casi con gente che ha vissuto per gran parte della sua vita in un sistema non capitalista: in questi casi, alcune persone vengono accecate dalla promessa di grandi guadagni. Ma noi oggi vediamo gli effetti di un percorso che altrove è agli albori, e possiamo – dobbiamo – far presente i pericoli che si corrono a fronte di una comunicazione aggressiva, promozionale, sbilanciata rispetto alle possibilità reali dei territori.

Sono aspetti che chi, come me, lavora anche sui social e sul web deve necessariamente tenere il considerazione: quando comunichi hai un grande potere, e quindi una grande responsabilità.

Ti faccio un esempio. Tempo fa, sul mio sito, avevo pubblicato un articolo su uno dei miei fiumi preferiti – un fiume di montagna, bellissimo, con splendide pozze di acqua limpida – in cui dicevo che avrei volentieri dato le indicazioni per raggiungerlo a chi fosse stato interessato. Cosa che, effettivamente, ho fatto. Poi però sono successe due cose: da un lato, è uscito da qualche parte sul web un articolo sulla Val Verzasca, definita come “le Maldive di Milano a sole due ore dalla città”, e questo aveva portato una massa enorme di gente su un territorio piccolo e poco attrezzato, con tutti gli effetti del caso. Dall’altro lato, una volta andando al “mio” fiume ci avevo trovato un sacco di gente, anche molto irrispettosa: musica a tutto volume, gente che campeggiava con tutte le sue cose sull’unica spiaggetta presente, eccetera. Questi episodi mi hanno dato da pensare, e infatti poi ho oscurato l’articolo.

Un’ultima domanda per te, Eleonora, dopo questa bella e interessante chiacchierata: che cosa consiglieresti, in base alla tua esperienza, a una persona che magari si approccia alla montagna per le prime volte?

Consiglierei di leggere qualcosa sulla montagna in generale e sul posto dove si vuole andare, per iniziare a comprenderlo. Consiglierei anche di dormire almeno una notte fuori: non necessariamente in bivacco o tenda, basta anche una qualche struttura di montagna, perché vivere il tramonto, la notte e l’alba in montagna è completamente diverso dal vivere la montagna in una sola giornata. In giornata è un’attività sportiva, mentre dormire fuori è un’esperienza più profonda che ti restituisce il senso di che cosa vuol dire vivere quel territorio. E poi, direi di ribaltare completamente la propria prospettiva, accettando il fatto che la montagna è totalmente diversa dall’ambiente urbano e che tu non sei invincibile. Che la montagna ha ragione lei, non hai ragione tu.

Consiglierei di cercare il più possibile di abbandonare la prospettiva urbana nei confronti della montagna , di mettere il proprio ego da parte e lasciare spazio al posto: in montagna, tu sei sempre un ospite: se gradito o meno, dipenderà in larga parte da te.


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