martedì , 15 Ottobre 2024

La restanza come forma di resistenza. Intervista a Michela Zucca

Una scelta dettata dalle condizioni presenti e del prossimo futuro. Ma anche una scelta politica, per rimarcare la volontà di provare a immaginare nuovi stili di vita, nuove possibilità e, anche, nuovi modi di fare comunità. Secondo Michela Zucca – antropologa specializzata in antropologia alpina e attiva da anni in montagna con progetti di sviluppo sostenibile in aree rurali marginali – il ritorno alle terre alte è l’unico modo per effettuare un vero cambio di rotta culturale, sociale ed economico: un cambiamento che oggi, complici i mutamenti climatici e la progressiva precarizzazione della vita negli agglomerati urbani, si rende sempre più necessario.

Michela, in che modo l’attuale situazione climatica e ambientale potrebbe influenzare un eventuale ritorno alla montagna?

Cominciamo con il rimarcare un’ovvietà, che però così ovvia non è: il clima sta cambiando. Siamo quasi al punto di non ritorno. Di questo passo, tra qualche anno città come Milano saranno invivibili per il caldo. Tra il clima e l’assenza di controllo sociale generalizzato – che ha reso possibili i terribili roghi sul Mediterraneo delle ultime settimane – dobbiamo ricordare che nel giro di pochi decenni il sud Italia sarà desertificato. Questo influirà anche sull’aspetto agricolo, perché gran parte di quello che oggi costituisce il made in Italy, come l’olio, non si potrà più produrre. Non solo: con l’innalzamento del livello del mare, l’acqua salmastra finirà per invadere gran parte delle aree in cui oggi si pratica l’agricoltura intensiva, cioè la Pianura Padana e il tavoliere di Puglia, che diventeranno inadatte a questo tipo di produzione. E non dimentichiamoci che oggi la maggior parte della popolazione italiana e dei comparti produttivi è concentrata sulle coste. Capisci che questo genererà non pochi problemi? Sono tutte cose ampiamente previste già da anni.

Ben presto le uniche zone abitabili in ampie aree d’Italia saranno proprio le montagne. Da terre di emigrazioni, torneranno a essere adatte alla vita.

Nei tuoi interventi citi spesso anche il dato sociale quale motivazione scatenante per una possibile risalita in quota…

Non si può scindere il dato ambientale e climatico da quello sociale. La tropicalizzazione del clima, la concentrazione demografica nei grandi aggregati urbani, l’agricoltura e l’allevamento intensivi sono tutti aspetti che impattano sulla società, e l’abbiamo visto negli ultimi due anni: il Covid sarà solo il primo di una serie di tanti altri virus, anche più letali, che emergeranno proprio in risposta a un determinato stile di vita e di produzione distruttivo, lo stesso che ha gli effetti che vediamo sul clima. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole. Non sono certo la prima a parlare di zoonosi sempre più pericolose. Il problema però nasce quando le azioni messe in atto per contrastare queste situazioni, in realtà, non servono che a tornare al “tutto come prima”, ignorando invece le cause profonde che hanno causato i problemi solo perché una piccolissima parte della popolazione mondiale possa tornare serenamente a spendere, consumare, sprecare senza perdere la propria posizione di dominio. Ecco, in un simile frangente c’è e ci sarà sempre chi rifiuta questo modo di vivere, chi non vuole adattarsi a vivere a queste condizioni e, pur di vivere più liberamente, sceglie di tornare alla montagna. Con tutti gli oneri del caso.

Tornare in montagna come scelta politica, quindi?

Per adesso, sì. Più che politica, la definirei però una forma di voluto adattamento per non subire certi stili di vita, certe imposizioni vessatorie. Recenti studi hanno dimostrato che le società amazzoniche, ad esempio, non sono rimaste legate alla natura selvaggia fin dall’antichità, ma vi sono ritornate con una scelta consapevole secoli fa, per non sottostare alle dominazioni esterne. Si sono così allontanate dai contesti urbanizzati e si sono adattate nuovamente all’Amazzonia. In un certo senso il concetto è lo stesso. Oggi si può scegliere di restare in città sempre più calde, adattandosi a lavori sempre più precari e a una profilassi sanitaria sempre più stringente, nella consapevolezza che le condizioni di vita nei contesti urbani andranno costantemente peggiorando. Oppure si può scegliere un’altra vita, un’altra via.

Per ora questa può ancora essere una scelta politica. Tra qualche tempo, invece, una scelta del genere sarà motivata da qualcosa di più profondo: la necessità di sopravvivere.

Secondo la tua esperienza, com’è oggi la situazione in Italia rispetto al tema del ritorno in montagna? Di certo se ne parla molto: ma sono solo parole, o si tratta davvero di un fenomeno significativo?

Il “ritorno alle terre alte” non è al momento ancora tale da compensare l’esodo opposto, cioè di coloro che dalla montagna se ne sono andati negli ultimi decenni. Non esiste quindi un movimento di ritorno significativo in termini numerici: è semmai significativo in termini di qualità. Sempre più persone si stanno rendendo conto che si può tornare “al paese” e avere una vita degna e dignitosa. Sempre più persone lo fanno. E bada bene: non sto parlando degli altoborghesi che vanno a fare smart working o south working nelle case di famiglia. Parlo di chi concepisce il ritorno alla montagna come un vero progetto di vita, che significa radicamento sul territorio e, soprattutto, autoproduzione. Una delle prime cose che si dovrà tagliare per evitare il collasso climatico definitivo saranno i trasporti dei beni non durevoli. Questo significherà tornare a produrre e consumare i proprio cibo e la propria energia sul territorio.

Quindi comunità più piccole ed egualitarie, autosufficienti, in cui viene meno la logica cittadina del delegare a qualcun altro i lavori scomodi: la restanza in montagna non può prescindere dalla presa in carico – da parte di tutti – dei lavori manuali accanto a quelli intellettuali.

Cosa intendi quando parli di restanza?

La “restanza” è il restare in montagna o campagna. Un restare che presuppone un reinsediamento attivo, capace di prendersi cura del territorio nel suo complesso: non significa semplicemente ristrutturare una casetta in montagna e mettersi a fare l’orto, significa ricominciare ad agire come collettività. Significa anche accettare il fatto che l’individuo senza comunità non esiste, e che i bisogni dell’individuo vengono dopo quello della comunità e del territorio.

Nell’immaginario comune c’è spesso l’idea che i luoghi e le genti di montagna siano chiusi, socialmente impenetrabili da parte di chi viene da “fuori”. Come si concilia questo con il senso di comunità di cui parlavi poc’anzi?

Posto che i disgraziati e i maleducati ci sono dappertutto e non possono certo essere considerati valido campione di studio, mi viene da rispondere che di fatto è molto più facile essere accolti in casa di montanari che in una qualunque casa di città. Quando ci siamo trasferiti qui in Trentino, il primo giorno di lavori in casa il nostro vicino si è presentato alla porta con due borse cariche di cibo, chiedendoci rigorosamente in dialetto “Ma ne avete da mangiare, almeno?”. Ecco, in una periferia metropolitana non sarebbe mai successo. Questo per smontare il pregiudizio con un episodio personale.

Poi ovviamente, se si osserva il contesto montano, bisogna considerare anche che in larga parte si tratta di gente che è stata deprivata per decenni, marginalizzata dalla politica e dalle amministrazioni, derubata delle generazioni più giovani che sono scese a valle. Cosa vuoi che facciano? Lo sanno benissimo che li si considera dei marginali.

Ciò che chi abita in città non riesce a capire, è che qui si valuta una cosa sola: la voglia di lavorare, di darsi da fare. Quindi la gente ti aiuta quando vede che non hai pretese, che dai una mano, che ti rimbocchi le maniche e partecipi. La socialità e la valorizzazione passano dall’impegno. Dopodiché, come dicevo, ognuno ha i suoi difetti, in montagna come ovunque.

Cosa ne pensi dei progetti di reinsediamento promossi dalle amministrazioni locali o dagli enti? Funzionano, hanno senso?

Partiamo con il dire che, sebbene il 78% del suo territorio sia montuoso e sebbene siamo il secondo paese europeo dopo la Svizzera per estensione di ambiente montano, l’Italia è l’unica nazione in Europa a non aver mai attivato veri e propri programmi di reinsediamento a livello nazionale. Ci sono semmai iniziative sporadiche, in capo a singoli comuni o singole comunità. Ciò detto, i progetti di riabitazione strutturati per dare frutti hanno bisogno di tempi lunghissimi, richiedono ingenti investimenti anche immateriali (ad esempio, corsi di formazione) e hanno un elevato costo sociale, rischiando di creare profonde divisioni in seno alle comunità locali. Un sindaco che decidesse di investire in un programma simile si metterebbe contro gran parte dei suoi abitanti, perché dovrebbe dirottare risorse dedicate ad esempio alle infrastrutture – già di per sé esigue – su un progetto i cui risultati si vedrebbero, forse, dopo dieci anni. Insomma, non sono tutti rose e fiori, e spesso falliscono proprio per questi motivi.

Che consigli daresti a chi volesse oggi attuare questa forma di resistenza, abbandonando le città per salire a vivere in montagna?

Innanzitutto bisogna essere disposti a rinunciare a quanti più consumi possibili, evitando le spese che non siano più che necessarie: più facile a dirsi che a farsi, visto che siamo in generale abituati a spendere in stupidaggini gran parte dei nostri guadagni. L’autoproduzione è fondamentale, sia sotto il profilo alimentare – e quindi orto, lavori di vanga e zappa, cucina con i prodotti di stagione – sia sotto quello energetico: in montagna il riscaldamento avviene soprattutto a legna, e questo significa anche ridimensionare gli standard di vita quotidiana acquisiti in città. Non si possono scaldare a legna tutte le stanze, il che si traduce in case più piccole e in una maggiore convivenza con le persone che dividono gli spazi con te.

Vivere in montagna significa tornare a fare fatica, a riconsiderare le aspettative di vita, a dismettere l’individualismo a cui siamo avvezzi ora a favore invece di un’idea di comunità. E le comunità saranno più piccole, coese, egualitarie ed inclusive, anche per gli elementi più deboli. Come lo erano le comunità montane del passato.


Michela Zucca ha fondato nel 2016 l’associazione Sherwood, che raccogliendo il testimone del preesistente centro di ricerca di Ecologia Alpina sviluppa i temi della storia delle donne e della restanza in montagna, soprattutto in relazione alle antiche leggi delle culture egualitarie che hanno abitato le terre alte e sono riuscite a viverci senza devastarne territorio e risorse. Sherwood organizza ciclicamente anche gli arkeotrekking, seminari itineranti in montagna proprio su queste tematiche.

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