sabato , 27 Luglio 2024

I bandi milionari non salveranno la montagna. Intervista a Michele Corti

«A uccidere la montagna saranno la demagogia, la burocrazia, i bandi artificiosi di una politica miope. E per resistere a questa espropriazione è necessario che chi vuole restare faccia rete, stringa i denti e anticipi soluzioni comunitarie che diventeranno l’unico modo per dare una risposta alla predazione in atto delle terre alte».

A parlare è Michele Corti, docente di Zootecnia di Montagna presso l’Università degli Studi di Milano, presidente dell‘Associazione Pastoralismo Alpino e titolare del sito Ruralpini, che nel corso della sua esperienza accademica ha approfondito le tematiche dei sistemi zootecnici alpini in tutti i loro aspetti non solo tecnico-scientifici ma anche socio-culturali, toccando argomenti attualissimi quali l’integrazione dell’allevamento montano estensivo con il turismo, il mantenimento del paesaggio e l’impatto della predazione sui sistemi economici e produttivi in quota. «Il problema della montagna oggi» spiega «è che vengono messe in atto grandi iniziative sbandierate come salvifiche ma in realtà volte soltanto a riqualificarne le “pietre pittoresche”, mentre l’aspetto umano e sociale che vi sottende è completamente ignorato o sottovalutato».

Michele Corti, secondo lei cosa significa vivere oggi le terre alte?

Credo che a una domanda del genere possa rispondere solo chi ci abita. Chi osserva da fuori, pur avendo contatti stretti e frequenti con chi ci vive, può forse descrivere la questione e analizzarne i termini, ma sarà sempre carente del dato soggettivo. Certo, forse da “fuori” si possono riconoscere più facilmente i vincoli economici, sociali e psicologici di una scelta di questo tipo… Che ci sono, inutile negarlo: vivere in montagna – e soprattutto lavorare in montagna, lavorare in un contesto rurale – significa vivere sulla propria pelle tutte le problematiche non solo dell’imprenditoria, ma anche dell’ambiente montano, quindi la qualità dei servizi, l’accessibilità, le relazioni umane, le difficoltà pratiche e quotidiane.

Ciononostante, oggi sul tema “vita in montagna” c’è moltissima retorica: si parla dell’imprenditoria in quota sempre all’interno di una narrazione in qualche modo romantica, esteticizzata, mentre le problematiche quotidiane sono poco considerate nel dibattito…

Non se ne può più di questa demagogia. Qualche anno fa, una narrazione di questo tipo poteva anche essere stimolante e incoraggiante, perché andava a contrastare delle visioni stereotipate che erano andate consolidandosi nei decenni: quindi il fatto di vedere la montagna come un’opportunità di lavoro per giovani o per persone con professionalità specifiche era un modo per rivalutare il territorio montano, per ricordare che la montagna potenzialmente poteva anche andare incontro a esigenze moderne e non essere incompatibile con esse… Ma oggi si fa molta demagogia, si è insistito troppo sulla possibilità di delocalizzazione, sullo smart working: e gli ultimi due anni ci hanno dimostrato quanto la retorica del “Vivi connesso e fisicamente sei in montagna, respiri aria buona anziché lo smog quindi va tutto bene” sia triste e da attrattiva possa diventare anche repellente, priva di senso se scollegata dal territorio stesso.

In che senso?

Nel senso che accanto alla retorica del “che bello” è mancato un aspetto fondamentale, cioè sottolineare il fatto che vivere in montagna senza alcun nesso con la terra, l’animale, il bosco, il prato, insomma con tutto ciò che rende la montagna tale, ha un senso molto limitato.

Per vivere davvero la montagna è necessario “sporcarsi un po’ le mani”: se questo viene visto come arricchente e interessante, allora va bene incoraggiare la gente a fare questo passo. Ma se si sponsorizza l’idea di una montagna solo come scenografia, se fa orrore l’idea di sporcarsi le mani o se non si vogliono intrecciare relazioni sociali con gli indigeni… Ecco, allora c’è qualcosa che non va. Ed è una retorica che non arricchisce o aiuta nessuno: né chi rimane in montagna, né chi vi ci si trasferisce, né la montagna stessa. I recenti provvedimenti a favore della montagna ne rivalutano soltanto le pietre e la dimensione pittoresca, di certo non l’aspetto sociale e relazionale, e l’abbiamo visto nell’ultimo cosiddetto “bando borghi”…

Parliamo del “bando borghi” e delle sue implicazioni, quindi: lei ha espresso un parere fortemente negativo sul tema, come mai? Qual è a suo avviso il problema di questo bando?

Il bando fa cadere a pioggia 20 milioni di euro su singoli paesi, ma per fare cosa? Che dimensione sociale effettiva hanno i progetti che giustificano una simile pioggia di denaro? Sono bandi e progetti che fanno cadere sui territori centri di ricerca, centri studio e opere analoghe che atterrano in montagna come astronavi, ma senza che ci si sia realmente chiesti che impatto ed effetto abbiano sugli abitanti reali di questi luoghi. Cosa ci guadagna un montanaro? Magari la sua casa arriverà a valere di più, ma di fatto si ritroverà a vivere in un paese che non è più un paese.

Il problema è che sono soluzioni artificiose. In primis perché tutti quei milioni vanno solo a pochissimi “eletti”, mentre i piccoli centri abitati che avrebbero bisogno di aiuto economico sono centinaia in tutto il paese. In secondo luogo perché calano dall’alto iniziative che creano pochissimi posti di lavoro, non contribuiscono a far rivivere una realtà sociale e di comunità e non valorizzano quelle che sono risorse locali da riattivare. Di fatto sono soluzioni che sfruttano la montagna come luogo fisico e pittoresco per delocalizzarvi dei pezzi di città e per portarci funzioni e iniziative che rispondono a esigenze estranee alla realtà locale.

Eppure stando ai dati cresce il numero di aziende agricole e di realtà imprenditoriali in montagna, spesso aperte da giovani. Lei come valuta questo fenomeno?

Penso che anche questo fenomeno sia da leggere all’interno della cornice di cui abbiamo parlato poc’anzi. Accanto a esempi estremamente positivi e impattanti, ci sono anche sempre più iniziative agricole realizzate da persone abbagliate da una visione stereotipata ed edulcorata della montagna: sono spesso persone che pensano di fare qualcosa di radicalmente nuovo e che si sentono depositarie di una qualche verità… Stereotipo per stereotipo, parliamo della classica azienda dei milanesi biodinamici, aziendine-giocattolo che magari dietro hanno una grande passione e perfetta buonafede, ma che stanno in piedi solo perché hanno altri introiti o altre fonti di reddito, o comunque perché dipendono economicamente da un’utenza cittadina. Insomma realtà che lavorano in montagna ma non per la montagna e per chi ci vive, e che si rivolgono sempre a un ambiente urbano e staccato dal contesto montano. Volenti o nolenti, questo crea una fortissima diffidenza e reazioni negative dei locali anche nei confronti di chi porta invece iniziative positive, di chi si pone con meno spocchia e più umiltà…

È un problema più sociologico che economico, perché queste aziendine non hanno mai volumi di affari significativi. È sociologico perché con questo atteggiamento si contribuisce a stratificare e consolidare pregiudizi da entrambe le parti. Da un lato ci sono i montanari, diffidenti per natura nei confronti dei “forestieri”, figurarsi poi se questi vogliono insegnar loro come vivere e lavorare! Dall’altro lato ci sono i cittadini della montagna romantica, arrivano pensando di creare chissà quali relazioni spontanee e sincere e poi vivono la delusione e il disincanto, perché hanno portato in montagna i medesimi meccanismi della città.

Quali potrebbero essere le azioni politico-amministrative da mettere in campo per permettere ai territori di montagna di svilupparsi secondo il proprio potenziale e le proprie specificità?

La prima soluzione da attuare, sarebbe quella di trattenere chi già abita questi territori. È ovvio che in una situazione di crollo demografico e di impoverimento sociale e culturale non si può pensare di attrarre nuovi abitanti, neppure se regali le case… Per sviluppare qualsiasi cosa, è necessario valorizzare prima ciò che già c’è. E allora proviamo a guardare i dati.

Negli ultimi anni si sono perse moltissime piccole aziende agricole. Ci sono – come dicevamo – anche esempi virtuosi, ma è un numero esiguo rispetto al potenziale che è andato perso. Se salvassimo le piccole aziende agricole che sono tutt’ora in punto di morte, avremmo molti più risultati che incentivandone di nuove, però allora è necessario osservare i motivi che portano a questa moria. Perché muoiono? Soprattutto perché sono soffocate dalla burocrazia e da un impianto di norme ambientali, faunistiche, igienico-sanitarie, fiscali che appartengono a un’epoca passata e che oggi impattano invece pesantemente su chi resta: norme anacronistiche, che non tengono in considerazione il cambio di contesto. Un esempio? I vincoli idrogeologici: giustissimi se si pensa di costruire edifici sul letto di un fiume, ma eccessivamente vincolanti se impediscono all’allevatore di tagliare la pianta che gli sta invadendo il pascolo, pascolo di cui ha bisogno per portare avanti il suo lavoro. Stesso discorso per il rapporto con la fauna selvatica, iper-protetta a discapito di chi in montagna ci vorrebbe lavorare, ma spesso non riesce a farlo per questi motivi.

Ecco, l’unica vera azione politico-amministrativa necessaria per le terre alte sarebbe questa: lo smantellamento del castello di norme che continua a equiparare la piccola azienda agricola di montagna – che convive peraltro con un ambiente ostico e con una morfologia territoriale svantaggiata – alla grande azienda semi-industriale di pianura. Non ha senso.

E invece?

Invece si ideano piani cervellotici, si stanziano milioni che non arrivano mai a terra, “bombe d’acqua finanziarie” che non impattano a livello sociale. Le norme sui piccoli centri di montagna non vanno mai avanti, sono sempre ferme lì, però poi si ideano queste enormità che sanno più di speculazione che di investimento reale.

Eppure basterebbe poco. Per i piccoli paesi in quota, sotto un certo numero di abitanti, si potrebbe attuare una deregolamentazione e defiscalizzazione totale o quasi, immaginando ad esempio un regime fiscale unico che dia la possibilità di svolgere attività in campi diversi senza che questo si trasformi in un sovraccarico di fiscalizzazione e di burocrazia. Detta in altri termini, oggi se qualcuno vuole mettere insieme un reddito facendo attività diverse deve aprire diverse posizioni fiscali e contributive: perché non dar modo invece a chi abita in montagna (quindi in un contesto svantaggiato) di ovviare a questo appesantimento e di essere un po’ artigiano, un po’ commerciante, un po’ agricoltore, defiscalizzando queste attività? Se lo stato non vuole metterci risorse, per la montagna, almeno che levi i vincoli burocratici!

La gente resterebbe più volentieri a vivere i paesi, si contrasterebbero abbandono e spopolamento e si manterrebbe meglio il territorio: certo, lo stato prenderebbe meno tasse, ma risparmierebbe sugli interventi emergenziali. Ma lo sappiamo: in Italia dalle emergenze qualcuno guadagna sempre più facilmente che sull’ordinarietà…

Verrebbe quasi da pensare che ci sia una cosciente volontà di impoverire il contesto montano, di lasciarlo a se stesso… Che ne pensa? Complottismo o rischio reale?

Nessun complottismo, ma pure e semplici costatazioni nate dall’osservazione di meccanismi sotto gli occhi di tutti. È un dato di fatto che, applicando alla montagna norme pensate per situazioni industriali, si voglia scientemente impoverire ed eliminare la piccola attività economica locale. Entriamo nell’ottica che la montagna fa gola a molti: acqua, energia elettrica, biomasse… È facile comprendere che alla base di certe scelte (o non scelte) politico-amministrative ci sia un meccanismo di speculazione, un’idea di fondo che vuole limitare la fruizione della montagna a poche situazioni turistiche d’élite e lasciare il resto dello spazio libero allo sfruttamento delle risorse naturali.

Stanno applicando alla montagna il modello africano: zone “safari” per ricchi, indigeni scacciati a pedate (se non con la coercizione, con normative tanto soffocanti da rendere impossibile la permanenza e il lavoro in loco) e il resto in mano a chi lo vuole sfruttare. Guardando i meccanismi in atto, la sensazione è proprio quella che si stia andando in una direzione simile.

In queste circostanze, cosa consiglierebbe a chi oggi volesse trasferirsi a vivere in montagna?

Consiglierei di uscire dalla logica dell’individualismo e immaginare progetti in rete con il territorio, con gli altri produttori e con gli abitanti del luogo: prima di vendere ai cittadini, è necessario dare un minimo di servizi a chi rimane, e pensare quindi in ottica di comunità. Certo, non è facile. Ma è necessario anticipare queste cose, iniziare a costruirle così da renderle realtà effettive: penso ad esempio alla formula delle cooperative di comunità, utilissime ai piccoli territori per attivare una rivitalizzazione che parla dal locale, e che ne tenga in conto i bisogni e le esigenze…

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