venerdì , 26 Aprile 2024

Di olio, fagioli e antichi vigneti

Adriano ci aspetta seduto nei pressi del microscopico parco giochi, lo sguardo adagiato sul paesaggio boscoso e verdeggiante che si srotola giù fino al fiume Argentina, svariate centinaia di metri più in basso. Giusto il tempo di attraversare la dolcissima manciata di case rurali e di orti a mezzacosta che è Agaggio Superiore, e subito notiamo una cosa buffa: quel minuscolo paesino semi-abbandonato, dall’aria pacifica immalinconita dal silenzio di case vuote, ha ben due chiese, dedicate al medesimo santo (San Carlo) e poste esattamente una di fronte all’altra. Una è vecchia e mezza diroccata, l’altra più nuova e dalla leziosa facciata color pastello, e tra le due a pelle preferisco immediatamente la prima: saranno quelle pietre smosse, quell’impressione che un solo colpo di vento potrebbe abbatterla, oppure l’assurdo orologio moderno che qualche anno fa qualcuno ha piazzato sul campanile. Chissà.

«Dalla Sovrintendenza ci hanno detto che non possiamo metterci mano, devono farlo loro, e bla bla bla», commenta Adriano, passandosi la mano nella folta barba candida e indicando la chiesina diroccata. «Se non eravamo noi del paese a puntellare il tetto, crollava tutta come un mazzo di carte».

Insieme alla moglie Carla Panizzi, Adriano Sasso è il custode della vocazione ormai perduta di Agaggio Superiore: con l’azienda agricola La Casciameia, nata nel 2001, producono infatti vino DOC e olio extravergine di olive taggiasche. E conservano, anche, le antiche varietà di fagioli locali. «Un tempo, qui erano tutte vigne», ammette Adriano. «Noi siamo rimasti quasi gli ultimi. È un lavoro che nessuno vuole più fare qui, perché è faticoso e rende poco».

Viticoltura eroica (per scelta)

Per capire cosa intenda Adriano basta guardarsi attorno. Nel tardo pomeriggio estivo, Agaggio Superiore (Survan in dialetto) pare un piccolo scrigno suggestivo, sfumato nell’oro dell’ultima luce e dall’aria profumata di bosco: ma le fasce che digradano lungo i pendii – il paese è situato lungo un antico tracciato a mezzacosta di epoca medievale – sono ripide, strette, attorcigliate tra i muretti a secco che impietosi si impilano uno sull’altro fino al fondovalle. Fare viticoltura quassù, spiega Adriano, significa fare tutto a mano. Viticoltura eroica allo stato puro, soprattutto quando a portarla avanti sono rimasti soprattutto anziani.

«Io prima facevo l’idraulico. Poi mi sono stufato e ho lasciato tutto a nostro figlio», racconta Adriano, delineando in poche parole concise quella che è la storia di una vita. «Io e Carla abbiamo deciso di riprendere in mano i terreni di famiglia, quassù ad Agaggio, coltivati a vigneto, e a Badalucco, dove ci sono gli ulivi. Ulivi centenari, eh, di olive taggiasche! Erano abbandonati da oltre vent’anni, sai? Abbiamo dovuto fare un lunghissimo lavoro di pulizia. Abbiamo imparato man mano».

Anche per i vigneti è stato tutto un procedere per gradi, continua ancora Adriano, mentre ci conduce a vedere il cuore e l’anima della piccola ma fiorente attività: il primo sta fuori, nei filari ritorti e carichi di grappoli che maturano al sole. Diverse di queste piante sono antiche, hanno radici che scendono giù fin sotto le fasce e i muretti a secco: «Abbiamo scoperto diverse piante di bianco molto vecchie, e recuperato così diverse qualità», spiega l’uomo. L’anima della Casciameia, invece, sta proprio nella “casciameia”, parola dialettale che indica il ricovero del fieno per il bestiame: i due coniugi l’hanno riconvertito in cantina attrezzata, e qui curano l’intera filiera, dalla vinificazione all’imbottigliamento, per produrre l’Ormeasco di Pornassio DOC e il bianco E Bunde.

Una storia di abbandono

La vocazione agricola di Agaggio Superiore è evidente nella grande quantità di orti e fasce a tagliare i pendii, ma oggi molte di esse sono abbandonate, invase da sterpaglia o addirittura da boschi (un destino, questo, comune a moltissime aree della Liguria interna). «Fino a qualche decennio fa, ad Agaggio Superiore erano tutte vigne: fornivano vino all’intera valle Argentina», racconta Adriano, camminando tra i vigneti e indicandoci ora un grappolo particolarmente bello, ora gli ennesimi gradini o dislivelli da superare lungo il percorso.

«Tutti avevano le proprie vigne. Oggi è diverso: i giovani se ne vanno, il paese si è spopolato. Le vedi tutte queste case? Vuote, comprate da stranieri, oppure abitate da anziani, i cui figli di certo non continueranno questo lavoro. Il motivo? Non rende abbastanza. Bisogna amare questo mestiere e questo luogo, prima di contare i soldi che rendono».

Il progressivo abbandono porta con sé anche un altro problema, tendenzialmente ignorato da chi la montagna non la vive (e non vive le sue problematiche pratiche): gli animali selvatici. Tassi, gazze, caprioli e cinghiali sono una vera piaga per le colture e per gli orti, distruggono qualsiasi cosa si metta in campo, si sono ormai riappropriati di territori che fino a pochi decenni fa erano ancora abitati e frequentati dagli esseri umani. «Nel 1948, ad Agaggio Superiore abitavano all’incirca 160 persone. Dove gira la gente non girano gli animali, ed è possibile vivere. Oggi non è più così: se la gente è poca e stanca, è difficile proteggere le colture. E diventa tutto più arduo».

Però, aggiunge, ci sono anche le persone come lui e Carla: stanchi, certo, perché lavorare così a volte logora. Ma anche consapevoli di aver fatto una scelta di controtendenza.

«Bisogna amare questo mestiere e questo luogo, prima di contare i soldi che rendono», conclude Adriano, stringendoci vigorosamente la mano e allungandoci, con un sorriso e senza tati fronzoli, una bottiglia di Sciactrà di Pornassio a mo’ di regalo e saluto.

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