martedì , 15 Ottobre 2024

Combattere contro un’idea di vuoto. Intervista a Rossano Pazzagli

Due Italie si guardano negli occhi: una urbana e l’altra montana, l’Italia dello sviluppo e dei servizi da un lato e l’Italia della marginalizzazione – geografica, economica, sociale – dall’altro. Entrambe legate, ed entrambe vittime di un disequilibrio politico e culturale che affonda le radici negli ultimi decenni di sviluppo. E oggi, complice anche la pandemia di Covid e le questioni economiche globali, sempre più persone tornano a interrogarsi sull’esigenza di ritrovare, o meglio ricostruire, quest’equilibrio perduto. Ma come fare? Da dove partire, e dove andare per riabitare davvero le aree interne? Ne abbiamo parlato con Rossano Pazzagli, “uno storico contaminato dal presente”, come ama definirsi: docente di storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise e autore del libro di recente uscita “Un Paese di paesi. Luoghi e voci dall’Italia interna” (Ets ed.), nonché esponente della Società dei Territorialisti e direttore della scuola di paesaggio “Emilio Sereni”, Pazzagli non ha dubbi: per riequilibrare le aree interne, è necessario comprenderne le ragioni di declino. E, soprattutto, modificare la percezione di “vuoto” che esse si portano appresso.

Rossano Pazzagli, cosa caratterizza le aree interne italiane oggi, e perché parla di squilibrio?

Partiamo dal dato fisico: l’Italia è un Paese rugoso, è costituita all’80% da colline e montagne. Potremmo definirla un “Paese interno” per antonomasia, pur essendo circondato dal mare. Ecco, ciò che è avvenuto dagli anni Sessanta a oggi è una progressiva marginalizzazione della collina e della montagna, quindi della maggior parte del territorio italiano. Quella di esserci concentrati nei poli urbani e lungo le coste è la caratteristica di fondo dello sviluppo del territorio italiano a partire dalla seconda metà del Novecento: di fatto, un processo di sviluppo squilibrato, cioè che ha generato differenze e disuguaglianze territoriali che poi, con il passare del tempo, si sono trasformate anche in disuguaglianze sociali. Chi abita in montagna, oggi, non ha le stesse opportunità e lo stesso accesso ai diritti fondamentali di chi abita in un ambiente urbano, e questo è un problema. Penso all’accesso ai servizi sanitari e pubblici, o all’istruzione.

La nostra Costituzione sancisce che siamo tutti uguali, non più o meno uguali a seconda di dove abitiamo: è questo lo squilibrio di cui parlo. Ed è questo lo squilibrio che è necessario correggere.

In che modo, secondo lei?

È necessario capire il declino per progettare la rinascita, altrimenti possiamo inventarci tutti i bei progetti che vogliamo: non dureranno. Dobbiamo capire perché abbiamo trascurato le montagne, e accettare il fatto che in una prospettiva storica questa evoluzione non era semplicemente “destino”: l’abbandono della montagna non è stata colpa del destino o della natura, ma di precise scelte di sviluppo, scelte politiche e di organizzazione territoriale che hanno privilegiato determinate zone a discapito di altre.

Negli ultimi decenni abbiamo scelto uno sviluppo polarizzante: di fatto abbiamo costruito poli in un paese che per sua natura è policentrico. Questa a mio parere è stata una forzatura della politica sulla storia.

Ed è una trascuratezza che dobbiamo riconsiderare e recuperare, a partire da una domanda: “Cosa è rimasto lassù?”. La risposta che troppo spesso viene data è: “non è rimasto niente”. Dobbiamo combattere contro questa idea di vuoto.

Allora le rilancio la medesima domanda: che cosa è rimasto lassù?

L’analisi di questi territori marginali, cioè le aree interne e montane italiane, ci rivela “lassù” l’esistenza di un insieme di risorse molto importanti, che mancano o scarseggiano nelle aree centrali: risorse naturali (l’acqua, l’aria pulita, il paesaggio, lo spazio libero…), ma anche tantissime risorse antropiche, frutto del lavoro dell’uomo nel corso dei secoli. Penso all’allevamento, all’agricoltura, alla cura del bosco e dei pascoli… Nelle aree interne sono rimaste non solo tutte quelle cose indispensabili alla vita pratica dell’umanità, ma anche un immenso patrimonio immateriale fatto di tradizioni, valori, virtù civiche altrove venute meno. Sono risorse che possono tornare utili non solo ai pochi abitanti rimasti lassù, ma all’intera società. Dovremmo fare tesoro di queste lezioni, ma non sono ottimista in tal senso.

Eppure il numero di persone che scelgono di abitare le aree marginali o montane cresce, magari impercettibilmente ma cresce. Questo potrebbe aiutare il riequilibrio di cui parlavamo poco fa?

Il problema ha radici fonde. Faccio mie le parole del geografo dei primi anni ’70 Lucio Gambi, che parlava di “alluvione demografica”: come l’acqua scende sempre a valle, così ha fatto anche la popolazione dei territori montani. È scesa a valle, e così montagna e campagna sono diventate dei contenitori vuoti.

Ecco, il modello di sviluppo attuato negli ultimi decenni ha in apparenza aumentato il benessere diffuso, ma oggi osserviamo due realtà differenti ed entrambe in crisi: le aree interne e montane hanno subito lo spopolamento e la perdita delle attività produttive, quelle centrali sono vittime degli effetti della sovrappopolazione e dell’inquinamento. Il riequilibrio è quindi fondamentale, certo, ma oggi si nutre soprattutto di pochi casi, statisticamente ancora non visibili ma che dimostrano la possibilità di creare vie alternative a un modello urbano ormai in crisi. Sono soprattutto iniziative individuali o familiari di persone che cercano di tornare alla terra e al paese, e che sviluppano attività professionali, culturali, di turismo o di agricoltura sostenibile nei territori interni. Ma mancano le politiche di accompagnamento che possano rendere questa tendenza una strategia, a eccezione di timidi tentativi.

Da dove partire, quindi, per riabitare le aree interne? Quali i percorsi da attuare, e quali le priorità e le criticità di cui tenere conto?

Per riabitare l’Italia, e nel dettaglio le sue aree interne e marginali, credo sia necessario partire dai servizi. Nessuno tornerà e resterà ad abitare in queste zone se mancano gli asili, le scuole, l’assistenza per gli anziani, un presidio medico, la posta, la farmacia e una connessione a banda larga. E poi, aggiungo, serve anche una connessione fisica: i luoghi sono uno spazio fisico, hanno bisogno di strade vere per arrivarci, di pullman che si fermino qui e colleghino l’Italia interna con l’Italia urbana. Bisogna riportare “fuori” i servizi e ricreare opportunità usando anche strumenti di piccola finanza come il microcredito.

Ma sarebbero necessarie anche politiche differenziate. Non c’è cosa peggiore, in un Paese diseguale, che trattare tutti allo stesso modo: nella migliore delle ipotesi le differenze si cristallizzano, nella peggiore si accentuano. Se vogliamo davvero fare uguaglianza, dobbiamo fare politiche differenziate, anche fiscali: servirebbe una fiscalità che consideri il disagio abitativo di queste aree. Non si può pensare di far pagare le stesse tasse, ad esempio, a un bar in centro a Milano e al bar di un paesino dell’Appennino con venti abitanti.

In quest’ottica, qual è il ruolo delle amministrazioni comunali? Come possono intervenire per ricreare un tessuto di comunità in questi territori e avviare processi di rinascita?

Il ruolo dei sindaci dei piccoli comuni è essenziale. Unito alla partecipazione degli abitanti, è la garanzia che le eventuali buone pratiche messe in campo possano durare nel tempo. Ma a due condizioni: la prima, è che le amministrazioni locali devono essere ascoltate (da chi sta sopra). La seconda, è che sappiano lavorare insieme, superando i vari campanilismi e sostituendo al modello della competizione l’idea della solidarietà tra territori. Questa è una conditio sine qua non, perché è stato proprio il modello di competizione a marginalizzare queste aree in passato. Lavorare insieme, dunque, salvaguardando sì l’autonomia dei singoli ma sviluppando politiche di area, gestendo insieme i servizi e pianificando di concerto il territorio.

Di reinsediamento, valorizzazione territoriale e di riabitazione delle aree interne oggi si parla molto, a riprova del fatto che la questione è attuale, o comunque sentita. Lei come la vede? Moda, retorica o reale occasione di sollevare un tema significativo e necessario?

Pur nella consapevolezza che parlare molto di qualcosa significa gettarvi luce e sottrarla all’oscurità, penso che sia meglio rifuggire dalla retorica del “piccoloborghismo” tanto in voga oggi. Riabitare le aree interne non significa soltanto andarci e starci per un po’, significa viverci. Ed è qui che avviene la grande scrematura. Molti hanno la seconda casa, trascorrono del tempo in campagna o montagna, ma poi la loro vita si svolge altrove. Riabitare significa invece restare, non andare altrove, ed è la cosa più difficile perché richiede di cambiare stile di vita, costruire relazioni e appartenenza. La retorica se la possono permettere quelli che hanno una via di fuga, ma riabitare le aree interne non deve essere percepito come una fuga o una rinuncia: dovrebbe rappresentare un miglioramento nella qualità della propria vita.

Per questo al termine “borgo” preferisco “paese”: il borgo è un contenitore, un paese è un insieme di funzioni e relazioni. E chi va nei luoghi nascosti lo fa per tornare a essere visibile, per riacquistare una identità che spesso viene a mancare nei contesti urbani.

Ritiene che la contrapposizione tra cittadini e “montanari” sia uno stereotipo? O pensa che ci possa essere del vero in questa narrazione conflittuale?

Le piccole comunità tendono alla chiusura quando sono in difficoltà, questo è vero. È un dato di fatto. Ma la questione riguarda semmai chi si avvicina alla comunità, non chi vi fa parte da sempre: difficilmente si crea dicotomia quando chi arriva lo fa con desiderio di comprendere, di capire. Il contrasto può esserci semmai quando i nuovi arrivati pretendono di “spiegare” come vivere a chi da sempre vive quei luoghi. E anche qui, ci sono casi e casi. Può capitare che il contrasto diventi conflitto, ma più spesso capita il contrario: cioè che i nuovi si adattino bene, dando così la possibilità al paese di salvarsi. Le comunità intelligenti sanno benissimo che nuovi abitanti significano possibilità di mantenere più servizi, e quindi difendersi meglio dal declino.

Ultima domanda: cosa consiglierebbe a chi pensasse di abbandonare la vita cittadina per provare a radicarsi in un contesto rurale?

Innanzitutto consiglierei di chiedersi cosa si vuole fare nella vita: la risposta condiziona necessariamente la scelta del luogo e del contesto. In base a questo, infatti, sarà importante valutare il livello di accessibilità di un’area o di un’altra, in relazione alle proprie aspettative e necessità. Orientarsi nella straordinaria ricchezza della “geografia delle differenze” italiane non è facile, ed è per questo che mi sento di consigliare anche di entrare in contatto con la comunità locale. Di sceglierla, e di non limitarsi a scegliere solo il luogo di per sé. Ancora, parlate con i sindaci dei luoghi e i protagonisti della vita locale, senza sottovalutare le difficoltà di chi è rimasto in relazione all’entusiasmo di chi è appena arrivato.

Infine, guardate ai possibili incentivi e alle misure di sostegno al reinsediamento messe in atto dalle varie realtà locali e regionali. Possono costituire un aiuto importante.

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