sabato , 20 Aprile 2024

L’ultimo carbonaio del Cansiglio

L’umidità estiva che sale dalla pianura veneta cancella Venezia in uno sfumato azzurrino, nebbioso. Difficile immaginare l’evanescente città dei canali da quassù, dove l’aria si fa più fresca e frizzante, carica del profumo corposo di un sottobosco vivo e antico, di faggete dalla lunghissima storia. I boschi del Cansiglio ci hanno accolto in una mattinata frizzante, dopo una ripida salita in jeep che ci ha portati direttamente in quota, qui, nel Parco dei Carbonai di Cordignano, nel cuore della foresta il cui legno regge ancora oggi le fondamenta della Serenissima. Siamo nell’area dell’Alta Marca trevigiana e da quassù abbracciano la piana veneto-friulana con un colpo d’occhio dall’alto, come le aquile.

Stiamo per immergerci in un mondo ormai perduto, stemperato da ricordi sempre più lontani: il mondo degli ultimi carbonai del Cansiglio.

Vita da carbonaio

«Era durissima fare il carbone». Ottorino Soneghet ha 82 anni, lo sguardo vivace. La voglia di raccontare gli scivola sulla lingua anziana e arguta mentre riporta in vita memorie, tradizioni, azioni imparate fin da bambino, quando con i nonni e gli zii trascorreva gran parte dell’anno quassù, nei boschi del Cansiglio, per produrre il carbone che poi veniva venduto a valle.

Quella del carbonaio era una vita di fatica, una vita ai margini che si srotolava stagione dopo stagione (a esclusione dell’inverno) nelle faggete di questo altopiano carnico a cavallo tra Veneto e Friuli. Ottorino l’ha vissuta dai 5 agli 11 anni, e oggi è rimasto uno degli ultimi a poter ancora raccontare questo mestiere, eco di un mondo che non esiste più se non nelle ricostruzioni. Come quelle realizzate dall’associazione di volontari del Parco dei Carbonai, quasi tutti figli o nipoti di carbonai, che hanno ricostruito a scopo didattico un sito di preparazione del carbone e tengono viva la memoria non solo di un lavoro, ma di un complesso sistema di produzione, economico e sociale.

C’è tutto, quassù: il casòn in legno dove abitava la famiglia del carbonaio, le lame di raccolta dell’acqua (importantissime in un’area carnica come quella del Cansiglio), l’ajal (cioè l’aia, lo spiazzo carbonifero) e infine il poiàt in legno e coperto di terra, la vera e propria carbonaia.

“Dar da mangiare al carbone”

«Il primo passaggio era la raccolta della legna, in luna calante così c’era meno linfa», racconta Ottorino, armeggiando attorno al poiàt ricostruito. «Poi preparavamo l’ajal e iniziavamo ad allestire il poiàt. Vedete? È una struttura a strati di legname disposti attorno a un camino, che viene man mano coperto di altra legna e infine di terra, con piccoli fori per consentire la fuoriuscita del fumo. Nel poiàt la legna non brucia, altrimenti come lo otteniamo il carbone? Era una combustione controllata. Lo chiamavamo “dare da mangiare al carbone”».

Una volta accesa la carbonaia, essa andava controllata attentamente giorno e notte fino a quando non ne fosse fuoriuscito fumo azzurrino: allora significava che il carbone era pronto, e si iniziava a tirare via la terra del poiàt per estrarne il materiale. «Li disponevamo sull’ajal per farli raffreddare. Compito dei bambini era andare alla lama a raccogliere l’acqua con una scodella di alluminio, perché il carbone non prendesse fuoco. Lo facevamo a sera, così che nell’oscurità riuscissimo a scorgere bene le fiammelle».

«Di quel tempo», dice Ottorino con lo sguardo perso nei ricordi, «ricordo soprattutto le facce nerissime di carbone di tutti noi che lo sorvegliavamo».

Un lavoro molto considerato

Nonostante le difficoltà e le limitazioni, quello dei carbonai era un lavoro di grande rilevanza, tant’è che in tempi di guerra erano esonerati dalla leva: era più importante che continuassero a produrre il carbone per gli sforzi bellici.

Questo fino agli anni trenta e Quaranta, quando l’avanzare dell’industrializzazione decreta la fine progressiva di questo mondo.

Ma come veniva regolata la produzione del carbone? Tutto partiva dai terreni demaniali, che venivano concessi in affitto temporaneo a “proprietari momentanei”, i quali a loro volta incaricavano una o l’altra famiglia di carbonai di procedere con la produzione del combustibile. Il prezzo di vendita del carbone veniva poi stabilito in base al tipo di terreno e alla qualità della legna presente. L’anno successivo il percorso ricominciava.

Tra casòn…

«Nei boschi del Cansiglio la produzione di carbone era molto diffusa, costituiva l’economia di sussistenza per molte famiglie», spiega Valentina Cobre, giovane architetta che ha curato una pubblicazione di approfondimento sul mondo dei carbonai di Cordignano e che ci ha accompagnati alla scoperta del Parco dei Carbonai. «Caratteristica di questa vita era infatti il coinvolgimento di tutta la famiglia: a primavera salivano nel bosco il carbonaio, la moglie, i figli, ma anche un aiutante per i lavori di fatica e una balia per badare ai più piccini. Si restava nel bosco dalla primavera alla fine dell’autunno. Ogni nucleo di carbonai era costituito all’incirca da otto persone». E tutti, conferma Valentina, vivevano nel casòn, la costruzione costruita per metà contro il pendio che rappresentava l’unica forma di architettura dei carbonai.

«Era provvisorio: all’inizio dell’inverno veniva abbandonato, e ricostruito l’anno successivo».

Quello del carbonaio era un mestiere duro, faticoso, molto povero sia come stile di vita che come alimentazione e rapporti sociali. Le relazioni erano limitate alla famiglia o alle compagnie di carbonai più vicine, la valle (con i suoi servizi quali medici e scuole) era raggiungibile con oltre quattro ore di cammino e spesso ci si confrontava con la difficoltà di reperire il cibo: base dell’alimentazione del carbonaio erano le patate, la polenta, a volte il frico (patate con formaggio fuso) e tutto ciò che il bosco poteva offrire. Cioè poco.

… e sogni di pesche

«Avevo qualche amico pastore, gente di passaggio, altrimenti stavo con la mia famiglia», continua ancora Ottorino. «La domenica era l’unico giorno in cui non si lavorava: la nonna leggeva il Vangelo, poi raggiungevamo le altre compagnie di carbonai nel bosco oppure andavamo a caccia di uccelletti o alla ricerca di frutti di bosco. Avevo sempre fame». Ottorino ride tra sé e sé nel raccontarci un episodio della sua infanzia: una volta, ci dice, era scappato dal casòn mentre la nonna faceva la polenta, perché aveva sentito dire che giù a valle c’erano fichi e pesche sugli alberi e lui voleva provarli.

«Le ho trovate le pesche, sai? Ma erano indietro, dure come sassi, così non ho mangiato niente, né le pesche né la polenta!».

Ottorino è il genere di persona con cui si potrebbe andare avanti a parlare per una vita intera, e forse non basterebbe nemmeno. Dipinge un mondo che per noi forse oggi ha poco senso, ma che rappresentava una dimensione viva e vibrante, composta da miriadi di episodi insignificanti solo all’apparenza. Come la volta in cui, portando i tacchini nel bosco, scoprì per caso una fossa comune di partigiani: la trovò solo perché gli animali si fermarono troppo a lungo in quell’area, attirati dalla grande presenza di vermi. Oppure come la volta in cui un uomo di Cordignano si offrì di pagargli le tasse per frequentare la scuola professionale, così che potesse imparare un lavoro diverso dal carbonaio. Ancora, Ottorino ricorda con un sorriso la volta in cui il parroco del paese non voleva fargli fare la comunione perché non aveva frequentato la catechesi: «Ma mia zia mi insegnava la dottrina nel bosco, e chiese al parroco di mettermi alla prova. Gli dimostrai che di dottrine ne sapevo tre, non una sola, tanto ero preparato!».

E quando infine è ora di tornare sulla jeep e proseguire il viaggio, ecco, quando infine è ora di andare viene addosso come una malinconia. Come se Ottorino, con tutti i suoi ricordi di carbonaio, sia l’ultimo baluardo di una memoria che rischierà di svanire per sempre, evanescente tra questi alti boschi severi, un tempo affollati di storie.

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