Una volta, durante un’intervista, un sacerdote di Vertova (BG) mi disse che fino a poco tempo prima le oltre quaranta santelle votive sparse su tutto il territorio venivano tenute curatissime: c’era sempre un lumino, sempre qualche fiore, sempre qualcuno che si facesse promotore della loro sistemazione qualora diventassero vecchie o scrostate. Spesso erano state erette dagli abitanti del paese, e da essi venivano curate.
Però, mi spiegò, da qualche anno a questa parte la situazione era cambiata: chi, nel silenzio e nella riservatezza, se ne occupava era venuto a mancare, oppure si era fatto troppo vecchio per curarle tutte, dato che stavano sparse lungo i sentieri, nelle contrade, nei boschi. Piccoli luoghi di devozione popolare che raccontavano una presenza costante, vigile e discreta sul territorio: una presenza che quel territorio lo curava. Lo presidiava.
Nella recente trascuratezza delle santelle votive delle montagne sopra il paese, si leggeva invece tutt’altro: un lento e inesorabile abbandono, uno sgretolarsi silente del tessuto a maglie strette che aveva custodito il territorio.
A me però queste santelle così sgarrupate piacciono. Piacciono perché raccontano storie. Perché sono testimoni di una montagna che cambia: alcuni dicono che muore, ma io non credo negli assoluti retorici. Mi piace pensare che pian piano ci sarà qualcuno che, qui e là, sceglierà pian piano di “adottare” questi angolini di passato. Di tornare a mettere un lumino, ad accendere metaforicamente una luce: alla santella, nel paese, in questa montagna obliata ma mai del tutto…