Ol Diaòl, ol Vècio, la Méda, ol Barba. E poi, maschere in legno intagliato, in corteccia d’albero, in stoffa e in cartapesta, visi grotteschi e raffigurazioni simboliche dei mestieri antichi, in una colorata e rumorosa processione che tocca tutte le contrade prima di raggrupparsi attorno al falò, gran finale della festa: è il Carnevale di Valtorta, nella piccola val Stabina bergamasca (laterale dalla Valle Brembana), uno dei pochi carnevali popolari del territorio a mantenere ancora aspetti tipici della cultura montana da cui trae origine.
[Questo articolo è stato pubblicato su L’AltraMontagna il 20 febbraio 2024]
Valle tortuosa valle di ferro, di alpeggi e di leggende
Per capire il Carnevale di Valtorta, prima bisogna capirne il territorio. E la natura di questo piccolo paese – poco più di duecento abitati stabili, con contrade pittoresche che paiono sospese sullo scorrere del tempo e una storia antica di estrazione e lavorazione del ferro e di alpeggi al confine con la Valsassina lecchese – è racchiusa nel suo stesso nome, Valtorta, cioè “valle tortuosa”. Basta arrivarci in macchina da Bergamo per comprenderne l’origine: la strada si inerpica lungo il torrente Stabina in un susseguirsi di curve, stretta come un gomitolo srotolato sul fianco della montagna, mentre di tanto in tanto davanti agli occhi compare – e subito scompare dietro una curva – un baluginio di neve sulle vette più alte delle Orobie brembane, a mo’ di corona posta sul capo di paesini abbarbicati e già in ombra.
La Val Stabina, sussidiaria della Valle Brembana e aggrovigliata ai piedi del Pizzo Tre Signori, ha una storia antica legata all’estrazione del ferro dai giacimenti delle Orobie meridionali e alla sua lavorazione, tra mulini, magli e segherie ad acqua disposti lungo il corso del fiume. Una fortuna, per una piccola valle così isolata e dalla conformazione così impervia, perché per secoli ha assicurato ai suoi paesi – Olmo al Brembo, Cassiglio, Ornica e Valtorta – e alle loro contrade un’occasione aggiuntiva di sussistenza e un’economia tutto sommato fiorente, che andava a integrare le attività agrisilvopastorali di monticazione e caseificazione sugli alpeggi circostanti.
Insomma una valle di ferro, formaggi e operosità montanara, che nell’isolamento delle sue comunità ha visto nei secoli il fiorire di simbolismi e leggende originali, in larga parte legati alla figura del maligno e del demonio, in un continuo e umanissimo tentativo di esorcizzarne la paura con racconti, tradizioni, affreschi e sfilate carnevalesche. Ecco allora che a Cassiglio si trovano ben due rappresentazioni della Danza Macabra (iconografia di origine medievale che mette in scena la danza degli individui di qualsiasi classe sociale con la Signora Morte), ecco che da Ornica parte la Val d’Inferno e lungo la strada che la collega a Valtorta spopolano le leggende sulle anime dei dannati che mettevano in fuga i viandanti al calar delle tenebre (fino al 1909, quando è stato fatto un esorcismo per liberare la strada), ed ecco che nelle tradizioni popolari di Valtorta il diavolo ritorna costantemente… Soprattutto nel carnevale, sotto forma di maschera armata di forca in legno che infastidisce il Vècio e tutti gli astanti.
Ol Vècio, ol Diaòl e tutte le maschere di Valtorta
È in questo contesto che si inserisce il Carnevale di Valtorta, manifestazione folkloristica partecipata da tutti gli abitanti come momento imprescindibile di comunità, riproposta di anno in anno grazie al lavoro del comune e dell’Ecomuseo di Valtorta e fortemente radicata nei simbolismi locali e alla tradizione dei carnevali popolari delle terre alte. Si svolge il sabato grasso, ultimo giorno di carnevale secondo il rito ambrosiano, e mette in scena come metafora la variegata e rumorosa essenza del paese attraverso le maschere che ne rappresentano i “tipi”: a cominciare dal Vècio, custode del paese e del carnevale, che con la sua maschera austera, il nodoso bastone e il campanaccio legato in vita mantiene l’ordine e guida la sfilata. La sua autorità è però sfidata dal comparire del Diàol Furchetì, maschera beffarda e cornuta vestita di rosso e armata di una forca di legno che sbatte ripetutamente a terra, spaventando i presenti e minacciando le altre maschere: il Barba e la Mèda (cioè gli zii scapoli e accidiosi), i sunadùr (i suonatori, che accompagnano la sfilata), ol bergamì (il mandriano) ol pastùr (il pastore) e tutti gli altri figuranti che raffigurano i personaggi del paese.
Ad essi si aggiungono i Belli, raffigurati come coppie di figure danzanti dagli abiti eleganti e dal cappello a cono adorno di fiori, che sono oggetto di lazzi e scherni da parte delle altre maschere, ben più grottesche e caricaturali. Altre figure simboliche del carnevale di Valtorta sono poi le maschere che incarnano il bosco – vestite con cortecce, rami e foglie – e il San Bernardo, diavolo-bambino che va a infastidire il Furchetì, e che rappresenterebbe uno dei patroni del paese, raffigurato spesso mentre trattiene il Diavolo con una catena.
Di contrada in contrada (Cantello, Grasso, Rava, Fornonuovo e Torre), la vociante sfilata vede in scena lo “scontro” simbolico tra ol Vècio e ol Diàol, fino al gran finale nel centro del paese, attorno a un grande falò dove avviene il disvelamento, cioè la levatura delle maschere e il ritorno alla dimensione “normale”, come a sottolineare l’aspetto giocoso di tutta la mascherata. Il vecchio vince, l’ordine è ristabilito, è il tempo della convivialità.
Una tradizione che rischia di perdersi
Un momento che coinvolge tutta la comunità, dicevamo: e infatti la sensazione è di essere per qualche ora nel cuore pulsante di un paese che festeggia per sé stesso, e non soltanto per attirare turisti o per offrire “esperienze indimenticabili” a chi passa di là. Tra i partecipanti, ci sono quasi solamente persone del posto. Il che, ci spiegano presso l’Ufficio Turistico, è un bene ma è anche un problema: «Ormai siamo pochi» racconta il volontario che mi accoglie al termine della sfilata. «e molto della tradizione originaria si è perso nell’oblio quando sono morte le persone che erano le ultime memorie storiche di Valtorta. Prendi le maschere, ad esempio: anticamente si realizzavano con ciò che si trovava sul territorio, con le pelli degli animali selvatici o con le cortecce d’albero. Oggi, non c’è più nessuno che sappia realizzarle alla vecchia maniera. È un peccato, perché se si interrompe la linea che tramanda le cose da una generazione all’altra è difficilissimo, se non impossibile, recuperarle. Però facciamo il possibile, ed è bello vedere che la gente continua a partecipare».